Questa lettura conferma l’opinione più che positiva che mi ero fatta di questa scrittrice dopo “Una nuova terra”, anzi, la incrementa: i temi sono gli stessi, il taglio è quello più ampio e approfondito del romanzo rispetto a quello più conciso dei racconti, ma non si ha la sensazione del già visto, già sentito.
Lo stile è così fluido, garbato e delicato, senza cadere nel nostalgico deteriore e nello struggente, che si rimane avvinti alla lettura anche senza che siano gli eventi della trama a destare attenzione e partecipazione. L’attenzione dedicata alla costruzione dei personaggi è tale che anche nei momenti in cui essa passa attraverso particolari minuti della vita quotidiana non si prova mai noia o fastidio, perché si percepisce che proprio attraverso questi piccoli dettagli la personalità di ognuno si manifesta e si offre al lettore. La storia è semplice: non banale, ma comune ai romanzi che trattano delle difficoltà di integrazione sociale degli orientali in occidente. L’analisi sottile della scrittrice però non si limita a ciò: esplora al contempo anche tutta una serie di altre difficoltà, come quelle derivanti da matrimoni combinati, dal contrasto “universale” tra genitori e figli, reso ancora più palese quando si tratta di famiglie di immigrati e, soprattutto, le peculiari difficoltà di integrazione degli immigrati di seconda generazione, che sono diverse da quelle dei genitori (al punto da essere definiti da una sigla specifica: gli ABCD, “American born confused/conflicted Deshi” – indiani disorientati/combattuti nati in America). Mentre i genitori conservano un legame più stretto con il proprio paese di origine, coltivano anche nella nuova realtà in cui vivono costumi e abitudine propri, tendono a frequentare connazionali emigrati come loro, i figli invece non si sentono più indiani ma ancora non si sentono americani, dimostrano insofferenza verso tutto ciò a cui i genitori continuano a dimostrare attaccamento, ma non sono ancora pronti per affermare la propria nuova identità “nazionale” aderendovi compiutamente.
La scelta di Gogol di cambiare nome, adottata forse con quella caparbietà dei neo-maggiorenni e sicuramente all’oscuro di quanto il nome “familiare” significasse nella storia del padre, avrebbe potuto rappresentare quel “salto” verso una nuova percezione ed affermazione di sé che avrebbe potuto renderlo “un po’ più americano”: ma così non è, perché le vicende della vita porteranno Nikhil a riconsiderare l’identità propria e la storia della sua famiglia, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, confrontandosi, cioè, con le famiglie delle ragazze a cui si lega. Una metamorfosi che passa attraverso fasi di evoluzione, ma anche di involuzione, e che soprattutto, sembra non sia mai destinata a compiersi. In tal senso ho trovato molto significativo un pensiero di Ashima, che si colloca all’inizio del romanzo, ma continua a pervaderlo fino alla conclusione: “essere stranieri […] è come una gravidanza che dura tutta la vita, un’attesa perenne, una fardello costante, una sensazione persistente di anomalia” e “come la gravidanza, essere stranieri […] stimola la curiosità degli estranei, la stessa mescolanza di rispetto e compassione”.
"L'omonimo" - Jhumpa Lahiri
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