"Il treno" - Georges Simenon

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Towandaaa
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"Il treno" - Georges Simenon

Messaggio da Towandaaa »

Mi è piaciuto: forse non tanto quanto “L’uomo che guardava passare i treni” e “Il piccolo libraio di Archangelsk”, ma mi è piaciuto davvero.
La trama non è certo comune, ma nemmeno troppo assurda, e si snoda sullo sfondo delle vicende belliche che forniscono non solo il contesto storico e geografico, ma entrano prepotentemente nella storia privata dei personaggi, determinando cambiamenti radicali nel loro essere e nel loro agire. Fin dall’inizio, le descrizioni delle abitudini di Marcel, così minuziose, creano la sensazione del radicale cambiamento incombente. Lui aspettava la notizia dell’avanzata tedesca, quasi la vagheggiava: non per semplice fatalismo, credo, ma perché un evento più grande della sua semplice esistenza lo avrebbe alleggerito dalle proprie responsabilità senza farlo sentire in colpa, e questo in fondo gli faceva piacere, o almeno, non gli dispiaceva. Significativa in tal senso mi sembra l’insistenza con cui Marcel afferma di avere una vita felice: quasi come se volesse convincersene.
L’avvio dell’esperienza della fuga, poi, crea immediatamente una frattura. Non solo quella materiale, che lo vede separato dalla moglie e dalla figlia, ma anche quella interiore, che lo vede trasformarsi in un uomo diverso: più egoista (come è sottolineato più volte dal particolare che si accerta di avere con sé gli occhiali di scorta più frequentemente di quanto non cerchi di informarsi sulla sorte della moglie e della figlia), e più votato al carpe diem (forma mentis che già aveva sperimentato durante la sua permanenza nel sanatorio, in cui, come nel treno, passato e futuro non contavano). Il vagone che lo ospita insieme ad una congerie di altri sfollati con cui sente di non avere molto in comune diventa così un microcosmo, all’interno del quale “reinventarsi” come persona diversa, staccandosi dai canoni di vita seguiti fino ad allora (non importa se per convinzione, per convenienza o semplicemente per abitudine). Tutto questo però non come atto deliberato e preordinato, ma quasi lasciandosi portare dagli eventi verso la nuova dimensione di sé che percepisce come desiderabile pur se ancora indefinita. E ancora tutta in divenire, come dimostra il fatto che mentre all’interno del vagone si sentono spontaneamente portati a darsi del tu, nel momento in cui scendono alla stazione per mangiare tornano temporaneamente a darsi del lei: si tratta infatti di una situazione che li riporta alla vita precedente, in cui le convenzioni, le regole della buona educazione che non hanno definitivamente rimosso li spingono ad agire così.
Marcel sembra proiettare anche in altri compagni di viaggio questa metamorfosi personale: quando osserva che la rabbia espressa da altri uomini per il fatto che i vagoni di prima classe siano stati staccati sembra una recita in favore di se stessi, riconosce, in definitiva, che anche altri, come lui, si trovano di fronte ad una situazione che li vede dibattuti tra l’idea precedente di essi da offrire a sè e agli altri e una propensione confusa a cambiare. Confusione interiore magistralmente espressa, secondo me, da un passo conciso ma molto intenso: “Forse non eravamo ancora arrivati all’indifferenza, ma ciascuno di noi aveva rinunciato a pensare in prima persona”. Questa frase porta con sé il cammino interiore avviato dalla drammatica esperienza che stanno vivendo: non sono più le persone di prima e ancora non sanno chi stanno diventando, come stanno cambiando, e il fatto di non conoscere gli eventi che li attendono è solo una delle componenti della loro confusione, quello che più li preoccupa, spaventa, ma che li attrae anche, è il fatto che questa metamorfosi si stia compiendo indipendentemente dal loro controllo.
Che il personaggio di Anna sia più forte, pur nel mistero che avvolge la sua vita precedente, appare chiaro fin dall’inizio. E Simenon ce lo fa notare di nuovo con un passaggio conciso e significativo: “L’unica cosa certa era che non aveva legami, né solidi punti di appoggio. Non era lei la più forte, dunque ?”. Quello che mi ha colpito è che, a stretto rigore, non possiamo affermare che la donna non avesse legami, né noi che leggiamo, né Marcel, né gli altri compagni di viaggio, perché non conoscendo la sua storia precedente l’unica cosa che si può affermare è che non si conoscono eventuali legami che potrebbe avere: ma tanto basta, perchè quello che rileva, in una situazione in cui tutto e tutti stanno cambiando, non è tanto il fatto di avere o no punti di riferimento, ma il fatto che i legami altrui siano noti oppure no, perché è questo che consente di fare confronti, esprimere giudizi, valutare le condotte. La forza di Anna sta dunque nel fatto di non essere esposta al giudizio altrui. Magari soltanto al proprio giudizio su stessa, ma fintanto che non lo lascia trasparire, la sua forza agli occhi degli altri e soprattutto di Marcel rimane intatta.
La vita fatta di precarietà che Marcel e Anna instaurano, si basa su pochi elementi in comune: l’attrazione che provano reciprocamente, il fatto di essere stati in passato entrambi rinchiusi (lei in prigione, lui in sanatorio), il desiderio di condurre “alla giornata” questo intervallo di tempo che non sanno quanto durerà né dove li porterà. Marcel dimostra un ulteriore progresso nel suo cambiamento: si sorprende di non aver pensato per 24 ore ai suoi occhiali di scorta, riconosce di non aver lasciato la sua casa per essere costretto a pensare e ad assumersi responsabilità. Sta portando cioè a maturazione il suo nuovo modo di essere, nella contingenza della situazione che vive, quella di profugo insieme ad Anna. Ma il culmine della parabola di trasformazione è già raggiunto, senza che quasi se ne accorga: la prima tappa dell’involuzione che lo porterà gradualmente ad essere quello che era si compie nel momento in cui ottiene notizie della moglie, della bambina e del figlio appena nato. In contemporanea (e non credo che sia un caso, ma semmai un espediente per mettere maggiormente in evidenza il fatto che ci troviamo di fronte ad un nuovo punto di svolta) all’arrivo dei tedeschi. Forse una metafora: la fuga dall’avanzata dei tedeschi vista anche come percorso di cambiamento; il trovarsi faccia a faccia con l’esercito nemico visto anche come una presa di coscienza del suo nuovo modo di essere. La partenza per raggiungere la moglie insieme ad Anna, lungi dall’essere secondo me una scelta che “stona” con quanto ci si potrebbe aspettare, si inscrive invece adeguatamente nel processo involutivo che riporterà Marcel alla sua vita e alle sue responsabilità precedenti. Un ultimo periodo da condividere insieme ad Anna, per rinviare almeno un po’ la separazione che entrambi percepiscono vicina, inevitabile ma anche necessaria.
Infine: il ritorno alla normalità, alla vita di sempre. La famiglia di Marcel si riunisce, di Anna si perdono le tracce fino al guizzo finale dell’epilogo che ci mostra un’altra faccia di questa donna misteriosa. Ma anche Marcel ha in serbo per il lettore una piccola “sorpresa”, che illumina l’esperienza vissuta non classificandola come uno sbaglio di cui vergognarsi o come un ricordo da dimenticare, anzi. La nuova percezione di sé che Marcel ha acquisito è più matura: realizza con chiarezza che la propria esistenza è piuttosto scialba ma non si perde nella nostalgia e nel ricordo di quanto ha vissuto insieme ad Anna, non tenta di riallacciare i contatti con lei (addirittura la respinge quando è lei a ripresentarsi); sceglie di scrivere questa storia. E non tanto per fare chiarezza con se stesso, quanto per lasciare al figlio una diversa immagine del padre con cui confrontarsi: quella dell’uomo comune che è stato capace di vivere una passione inattesa, ma anche di tornare alle proprie responsabilità.
Lo stile e il tono scelti per raccontare tutto ciò sono quanto di più adeguato possa esserci, secondo me, per questa storia, che è fatta più di sviluppi interiori che di eventi, ma comunque rimane incentrata su persone semplici. Non credo si possa giudicare piatto e impersonale il modo di descrivere quanto accade, perché si tratta proprio di una parentesi occasionale, vissuta più in modo passivo (lasciandosi trasportare dagli eventi) che in modo attivo, e come tale è appropriato darle un taglio che dia l’impressione di un “vedersi vivere”, quasi con incredulità.
E la scelta dell’autore di non prendere le parti di alcuno, di non esprimere giudizi, è quanto di meglio ci sia per i miei gusti di lettrice: perché lascia alla sensibilità e alla riflessione di chi legge spazio per mettersi in gioco, per confrontarsi ipoteticamente con una situazione del genere, per assumere un ruolo attivo nella lettura che altrimenti rimane solo una percezione di un testo che racconta una storia, ma poco o niente lascia dietro di sé in termini di accrescimento.
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Re: "Il treno" - Georges Simenon

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Re: "Il treno" - Georges Simenon

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