Marisa Fenoglio se n’è andata dalla sua Alba nel 1957, al seguito del marito che veniva mandato dalla sua ditta in una neonata succursale di Niederhausen come dirigente. Un’emigrazione dunque lontana da quella quasi coeva dei Gastarbeiter, un’emigrazione che potremmo definire di lusso, sebbene molti dei problemi, primo tra tutti quello dell’appartenenza, restino simili se non uguali.
Niederhausen è, a detta dell’autrice, «l’ultimo fanalino del mondo», un posto che non è città né campagna, ma più vicino comunque al nostro concetto di campagna. L’autrice ci narra la storia della sua permanenza in Germania, con tutte le vittorie e le sconfitte del caso, con tutti i problemi, le preoccupazioni, ma anche le gioie. Una permanenza segnata dalla musica, che avvicina Marisa alla Germania con le note di Bach, Beethoven e gli altri grandi compositori tedeschi. Una permanenza durante la quale l’autrice arriva a comprendere che «la patria non è solo una terra, un paesaggio, una famiglia, la patria è soprattutto una lingua». Come hanno compreso molti altri grandi autori prima di lei, certo, ma è un concetto sempre interessante. Penso ad esempio a Elias Canetti, autore che Fenoglio cita un paio di volte rendendogli esplicito omaggio, il quale fece del tedesco la propria patria.
Interessante anche una conversazione che l’autrice ha con un poliziotto, con il quale parla della Sehnsucht, questa parola tedesca intraducibile in italiano, che indica la nostalgia ma anche il desiderio, l’anelito, lo struggimento. Da questa conversazione l’autrice arriva alla conclusione che ogni lingua ha le proprie parole intraducibili perché in sé perfette, e rende infine omaggio ai traduttori:
Un libro, insomma, piacevole, sebbene non sia esente da pecche, come ad esempio il finale un po’ “tagliato con l’accetta”. Lo consiglio a tutti coloro che siano interessati alla vita vissuta altrove, a capire cosa si prova, che problemi si affrontano, sebbene in questo caso il punto di vista sia sicuramente quello di una persona privilegiata.«Io provo rispetto per i grandi traduttori», esclamai allora. «Tradurre gli apici di una lingua in apici di una seconda, è come librarsi nel vuoto per passare dalla cima del Monte Bianco alla punta del Cervino. Pochissimi ci riescono. Il grande traduttore è un essere solitario che sa stare a grandi altezze, è quel ponte sospeso nel vuoto, su cui l’umanità si appoggerà per attingere alla bellezza delle vette. [...]»
Inutile dire che, vista la mia professione, io provo grande rispetto per tutti i traduttori, non solo quelli grandi e non solo quelli che traducono gli apici di una lingua negli apici di una seconda, ma per tutti coloro che traspongono concetti in altri concetti.