Con questo romanzo autobiografico Arturo Perez-Reverte dà l’addio alla sua professione di reporter di guerra, esercitata per più di vent’anni in tutti i punti caldi del pianeta.
Un libro che mi ha molto colpita perché io l’ho interpretato non tanto come un romanzo sul giornalismo di guerra, ma come un inno alla pace da parte di chi ha visto e vissuto in prima persona le guerre che hanno devastato il nostro mondo negli ultimi decenni.
Certamente si parla di giornalismo e mi sono resa conto che è un mestiere molto più pericoloso di quanto pensassi: i reporter devono imparare a capire le tattiche di guerra, devono riconoscere da dove sparano i mortai, quanto tempo può passare tra un colpo e un altro. Ma non è solo questo: per sopravvivere devono sapere come si corrompono i poliziotti, come si mette in moto un auto rubata, come si falsifica una nota spesa e devono imparare a capire quando è il momento di fuggire. Soprattutto, devono imparare a convivere con la morte: quella che colpisce gli conosciuti che riprendono con le telecamere, quella che colpisce i colleghi e quella che potrebbe colpirti in qualsiasi momento.
Il protagonista racconta anche dei cosiddetti “giapponesi”: diplomatici, politici e persone famose che arrivano in un paese devastato dalla guerra e si rintanano negli alberghi più sicuri per farsi fotografare e rilasciare interviste e poi se ne vanno al più presto senza assolutamente rendersi conto di che cosa sia la guerra.
Questa è la visione della guerra di un reporter che l’ha vissuta:
“In realtà era sempre la stessa barbarie: da Troia a Mostar o a Sarajevo si trattava sempre della stessa guerra….non so che cosa vi racconteranno gli altri, ma io c’ero e vi giuro che è sempre la stessa: un paio di disgraziati in uniforme diverse che si sparano a vicenda, morti di paura in un buco pieno di fango, e uno st

