"Io sono nato tanto da mia figlia quanto dai miei genitori, da lei ho imparato cosa significava la mia vita e, in questo tenero incubo, tutto e' stato generato di nuovo". Un padre, l'autore, narra la storia di Pauline, sua figlia, morta di cancro a 4 anni e dell'ultimo suo lungo anno, "il piu' bello della mia vita". Il romanzo e' realistico fino alla crudezza nel narrare la malattia, un pugno nello stomaco a cui ci si vorrebbe sottrarre interrompendo la lettura:"Parola d'ordine: niente pathos! Ma allora che fine fanno la verita' e il suo insopportabile nodo vissuto di angoscia e dolore? Troppo volgari, vero? Ho paura di deludere. Questione di debito contratto verso colei che, fuori dalla pagina, ha conosciuto davvero la sofferenza con cui altri fanno libri". E colei, la piccola Pauline, provoca nel padre, che si e' sempre sentito un lettore, l'urgenza di scrivere, di lasciare "un'incisione nel legno del tempo", di fare di sua figlia "un essere di carta". E il padre risponde all'urgenza, scrivendo "con modestia e sufficienza, sapienza e ingenuita' come i bambini che....posano la manina con le dita allargate nel gesso o nella creta". Scrive consapevole che "come gli esseri viventi, le parole sono in partenza per il nulla che le aspetta al varco". Scrive confrontandosi con la letteratura che ha sempre studiato come critico, parlandoci del dolore di Hugo e Mallarme', della loro disperazione e follia alla morte dei figli, della loro scelta di non voler arrendersi, come lui, al lutto. Sa perfettamente che "lo scrittore non si salva meglio di qualsiasi altro afflitto. Cio' che vive, lo trasferisce in un mondo di parole meditate. L'operazione trasforma le condizioni del dramma ma non ne modifica l'esito".
Il racconto delle cure e delle operazioni di Pauline, insieme a quello dei suoi giorni sereni ("Per qualche giorno si apre una parentesi di sonno, di baci, di giochi, di liberta'. A modo suo, la vita puo' far finta di ricominciare"), si alterna a riflessioni su come la morte viene rimossa nella societa' contemporanea, in televisione, per strada, negli stessi ospedali. L'autore attacca i media che ci presentano solo i malati che guariscono, che con la loro forza di volonta' vincono il cancro, mentre "quelli che muoiono possono prendersela solo con se stessi. Non hanno creduto abbastanza alle loro possibilita'". Ci mette in guardia contro il sentimentalismo, che "e' l'impunita' delle lacrime, il conforto del pathos, la compassione a distanza, il piacere di sentirsi umani piu' la liberta' di cambiare canale." Cosa chiede al lettore? Forse solo di leggerlo fino in fondo, di non scappare, di perpetuare per un attimo il ricordo di Pauline.
""Tutti i bambini tranne uno, crescono", scrive James Barrie." Peter Pan e i bambini sperduti accompagano e scandiscono tutto il romanzo, Pauline si immedesima con la piccola Wendy. Suo padre le regala queste ultime parole "Prendi tutto cio' che brilla e si stacca dal fondo blu scuro dell'oblio. L'ho portato a te. La luna e un milione di stelle. Gia' inesistente, passa nella mia voce che non tacera'. Cosi' dicevi: ti addormenti e ti alzi in volo. La seconda stella che si accende in cielo, poi dritto fino al mattino dopo...".
Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno, Alet Edizioni 2005
Philippe Forest - Tutti i bambini tranne uno
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Quello che vibra fortemente in questo romanzo è il contrasto tra lo strazio interiore del padre e il modo misurato con cui lascia trapelarlo non solo nei confronti della figlia, della moglie e di tutti coloro che hanno avuto una parte nell’ultimo anno di vita di Pauline, ma anche nei confronti del lettore.
Fin dall’inizio l’intento dell’autore di perpetuare in qualche modo il ricordo della figlia appare palese, ma, ancora una volta, misurato e dignitoso, perché avrebbe anche potuto arrivare a sfiorare i toni dell’agiografia, a dipingere lei, la moglie e se stesso come degli eroi (e chi avrebbe potuto criticarlo ?), ma ha scelto invece di dare alla narrazione un’impronta lucida, diaristica, grazie alla quale è il lettore a crearsi l’immagine della grande forza della bambina e dei suoi genitori, sono i fatti che parlano. Una grande cura è riservata anche alle descrizioni ambientali, soprattutto quelle dei luoghi in cui i protagonisti hanno vissuto i momenti più sereni perché ancora inconsapevoli di quanto sarebbe accaduto: anche questi passi assumono il valore di testimonianze, come se dopo la morte di Pauline nemmeno i luoghi fossero più gli stessi.
Su questa costruzione così razionale si innestano poi riflessioni, sfoghi verbali e dialoghi così intimi e personali, che il lettore non può che assistervi, tentare di calarsi nella situazione che li ha indotti, ma comunque soprassedere rispetto a qualsiasi giudizio in merito ad essi: i parametri della verisimiglianza, della coerenza, della concretezza cessano inevitabilmente di avere una qualsiasi validità di fronte a tragedie di questo tipo.
Una nota a parte merita la digressione sul romanzo (e sull’esperienza di grandi autori del passato in circostanze simili a quelle narrate) che occupa la parte centrale del libro e in cui Forest ha trasfuso tutta la sua cultura e preparazione di critico letterario. Solo a prima vista può sembrare che si tratti di una sorta di parentesi, che tende ad attenuare un po’ la tensione prima dell’epilogo. Ma ripensandoci a mente fredda (e questo è proprio il genere di romanzo che richiede, secondo me, un ripensamento a posteriori) queste pagine appaiono davvero agghiaccianti se viste come il frutto di una angoscia e una disperazione indicibili che guidano la mente di un padre verso argomenti apparentemente avulsi rispetto alla tragica storica che ci sta raccontando.
E davvero ce la sta raccontando: perché non è un romanzo con cui ricostruisce ed elabora il dramma per sé, per superarlo; ma un romanzo che offre ad altri una tremenda esperienza personale e familiare, un fulgido esempio di coraggio e molti ammonimenti contro gli atteggiamenti che possono di volta in volta assumere “gli altri” (personale medico, parenti, amici, semplici conoscenti, opinionisti e mass media) nei confronti di coloro che sono direttamente colpiti dalla malattia nel corpo e negli affetti. A volte oggetto di critica aspra (come la tendenza dei mezzi di informazione a parlare solo dei casi conclusisi con la guarigione o a dare eccessiva importanza alla volontà di guarire) altre volte semplicemente esposti, con un tono di umana comprensione che niente toglie alle tragiche dimensioni che la disperazione può assumere (come l’inconsapevole aggrapparsi, da parte dei familiari di altri ammalati di fronte alla morte dei pazienti dello stesso ospedale, anche ai dati della statistica, piegandoli ad una sorta di “mors tua, vita mea” applicato non a due contendenti opposti ma ad individui che la malattia ha colpito in modo simile).
Molti sono i passi che lacerano il cuore del lettore (soprattutto del lettore che sia anche genitore) e ciò era inevitabile di fronte ad una storia del genere; ma il grande merito dell’autore è stato, secondo me, quello di non aver mai spettacolarizzato, assunto toni teatrali o indugiato su essi: il carico estremamente tragico emerge anche da quello che non è detto, non è descritto, o è solo accennato, niente affatto sminuito ma semmai addirittura accentuato, come quando l’autore, dopo aver accennato più volte e in momenti diversi al proprio atteggiamento molto vicino all’ateismo, arriva ad affermare “Ero pronto a pregare qualunque Dio”.
Fin dall’inizio l’intento dell’autore di perpetuare in qualche modo il ricordo della figlia appare palese, ma, ancora una volta, misurato e dignitoso, perché avrebbe anche potuto arrivare a sfiorare i toni dell’agiografia, a dipingere lei, la moglie e se stesso come degli eroi (e chi avrebbe potuto criticarlo ?), ma ha scelto invece di dare alla narrazione un’impronta lucida, diaristica, grazie alla quale è il lettore a crearsi l’immagine della grande forza della bambina e dei suoi genitori, sono i fatti che parlano. Una grande cura è riservata anche alle descrizioni ambientali, soprattutto quelle dei luoghi in cui i protagonisti hanno vissuto i momenti più sereni perché ancora inconsapevoli di quanto sarebbe accaduto: anche questi passi assumono il valore di testimonianze, come se dopo la morte di Pauline nemmeno i luoghi fossero più gli stessi.
Su questa costruzione così razionale si innestano poi riflessioni, sfoghi verbali e dialoghi così intimi e personali, che il lettore non può che assistervi, tentare di calarsi nella situazione che li ha indotti, ma comunque soprassedere rispetto a qualsiasi giudizio in merito ad essi: i parametri della verisimiglianza, della coerenza, della concretezza cessano inevitabilmente di avere una qualsiasi validità di fronte a tragedie di questo tipo.
Una nota a parte merita la digressione sul romanzo (e sull’esperienza di grandi autori del passato in circostanze simili a quelle narrate) che occupa la parte centrale del libro e in cui Forest ha trasfuso tutta la sua cultura e preparazione di critico letterario. Solo a prima vista può sembrare che si tratti di una sorta di parentesi, che tende ad attenuare un po’ la tensione prima dell’epilogo. Ma ripensandoci a mente fredda (e questo è proprio il genere di romanzo che richiede, secondo me, un ripensamento a posteriori) queste pagine appaiono davvero agghiaccianti se viste come il frutto di una angoscia e una disperazione indicibili che guidano la mente di un padre verso argomenti apparentemente avulsi rispetto alla tragica storica che ci sta raccontando.
E davvero ce la sta raccontando: perché non è un romanzo con cui ricostruisce ed elabora il dramma per sé, per superarlo; ma un romanzo che offre ad altri una tremenda esperienza personale e familiare, un fulgido esempio di coraggio e molti ammonimenti contro gli atteggiamenti che possono di volta in volta assumere “gli altri” (personale medico, parenti, amici, semplici conoscenti, opinionisti e mass media) nei confronti di coloro che sono direttamente colpiti dalla malattia nel corpo e negli affetti. A volte oggetto di critica aspra (come la tendenza dei mezzi di informazione a parlare solo dei casi conclusisi con la guarigione o a dare eccessiva importanza alla volontà di guarire) altre volte semplicemente esposti, con un tono di umana comprensione che niente toglie alle tragiche dimensioni che la disperazione può assumere (come l’inconsapevole aggrapparsi, da parte dei familiari di altri ammalati di fronte alla morte dei pazienti dello stesso ospedale, anche ai dati della statistica, piegandoli ad una sorta di “mors tua, vita mea” applicato non a due contendenti opposti ma ad individui che la malattia ha colpito in modo simile).
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"Una storia che non conosci
non è mai di seconda mano
è come un viaggio improvvisato
a chilometraggio illimitato"
S. Bersani, Pacifico, F. Guccini - Le storie che non conosci (Io leggo perchè - 23 aprile 2015)
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