E io invece lo sono (una quarantenne con una famiglia alle spalle !!

) ma secondo me i romanzi di Anne Tyler sono belli di per sé, anche a prescindere dalla capacità di immedesimazione del lettore !
Questo è quanto ho scritto nella J.E. su questo libro (di cui GrilloParlante ha fatto un ring):
Il tema della fuga (temporanea o duratura – con o senza cambiamento di identità) non è certo nuovo nella narrativa: basti pensare, tanto per fare solo due esempi, a “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello o a “L’uomo che guardava passare i treni” di Simenon. E questo forse è dovuto al fatto che spesso può capitare a chiunque di attraversare momenti in cui si avrebbe voglia di scappare da tutto e da tutti, e ricominciare da capo.
Il contributo che la Tyler ha dato con questo romanzo al tema della fuga è, secondo me, proprio quello che ci si poteva aspettare da lei: la sua abilità principale, che a mio parere assurge proprio ad una caratteristica peculiare di questa scrittrice, consiste infatti nel raccontare vicende familiari, sottili equilibri sempre in bilico quando si tratta di convivenza, episodi anche un po’ particolari, ma sempre con toni non eclatanti, misurati, dedicando attenzione agli stati d’animo che anche i fatti più semplici della vita possono scatenare, piuttosto che agli eventi in sé.
Ci si può immedesimare oppure no con le scelte della protagonista (e questo dipende molto dal proprio carattere e dalla propria storia personale) ma questo non influisce, secondo me, sul valore del romanzo in sé, perché leggendolo ci si trova ad osservare uno spaccato di una storia familiare, e per apprezzarlo non è necessario riconoscersi nell’uno o nell’altro dei personaggi: si può tranquillamente assistere senza schierarsi, tale è la bravura della scrittrice nel presentarci personaggi, luoghi, scelte, pensieri.
Un altro pregio del romanzo, a mio avviso, consiste nel fatto che l’autrice non ha assunto toni moraleggianti, non ha preso le parti di nessuno dei personaggi: semplicemente ce li ha mostrati, nel loro essere e nel loro agire, lasciando a noi lettori qualsiasi considerazione al riguardo.
Infatti, se è vero che fin dalla primissima pagina si è forse un po’ portati a parteggiare per Delia (la vaghezza dei dettagli forniti dai familiari alla polizia subito dopo la scomparsa della donna basterebbe da sola a lasciare intuire che ci sia un certo disinteresse nei suoi confronti, oppure – e sarebbe anche peggio – una malcelata convinzione che lei non possa da sola organizzare e perseguire un piano di fuga realizzandosi in una nuova vita), è anche vero che nello sviluppo della storia, sia tramite i frequenti “ripensamenti” di Delia, sia grazie agli “stacchi” sui vari componenti della famiglia nel momento in cui intervengono nella nuova vita di lei, il lettore si trova a considerare che tutto sommato è vero il vecchio motto secondo cui la ragione non sta mai da una parte sola. E anche a concludere che non sempre le azioni sono determinate da razionalità, logica, calcolo, ma anche talvolta da un senso di abbandono al corso delle cose, da una sospensione della volontà di controllare gli eventi (aspirazione che ritengo molto umana, anche se sotto ad essa può nascondersi inconsciamente un intento di giustificazione per un atteggiamento a cui forse vorremmo abbandonarci più spesso di quanto non possiamo permetterci).
Infine aggiungo una piccola nota riguardo ad un particolare della condotta di Delia nella sua nuova vita da “signorina Grinstead”, che confronterei volentieri con l’opinione di altri lettori: la grande importanza che Delia attribuisce alla propria immagine esteriore (abbigliamento, modo di camminare, abitudini), unita al fatto che comunque non abbia mai tentato di cambiare identità né di rompere definitivamente ogni collegamento con la sua famiglia, non lascia intendere che lei stessa, forse inconsapevolmente, intendesse fin dall’inizio questa sua fuga solo come una parentesi all’interno della sua “vera” vita, da tenere ben distinta, prima di tornare ad essere l’altra e “vera” se stessa ? Se così fosse, e sebbene il finale del romanzo non sia ben definito, si può allora ritenere che mentre la fuga è stata frutto di una scelta impulsiva e avventata, il periodo trascorso lontano da casa è stato invece un intervallo di tempo in cui maturare desideri, consapevolezze e giudizi quasi oggettivamente, come osservandosi da fuori, per poi affrontare un ritorno in famiglia a cui il matrimonio della figlia ha solo fornito l’occasione, non l’esclusiva giustificazione.