Ieri sera sono stata in una libreria nei carruggi di Genova, una libreria relativamente nuova, aperta qualche mese fa con un sogno importante, che avevo sempre voluto vedere, e finalmente ieri sera si è presentata l'occasione.
Ho avuto il privilegio (uso questa parola non a caso) di andarci in una serata di presentazione di un libro che già dalla presentazione e dalle prime pagine che ho divorato, intuisco straordinario. Il libro di un uomo che è arrivato in Palestina quasi per caso, con un bagaglio di cultura e di idee, perché studiando l'arabo gli era sembrato che il lago Tiberiade fosse il luogo più adatto per sciacquare i suoi panni linguistici. Diceva ieri sera, e non fatico a credergli, che di quel bagaglio è rimasto ben poco. Diceva che questo libro è stato scritto per far venire a chi lo legge la voglia di andare in Palestina, perché per lui andare in Palestina, sentirsi prigioniero laggiù, in tanti sensi diversi, è stato, appunto, un privilegio. Perché ci sono cose che non si possono immaginare, ma solo vedere, sentire e toccare, come lo za'tar, il pane intinto nell'olio speziato con timo e summaco. Ieri sera quel pane ce lo hanno fatto assaggiare, almeno di quello abbiamo potuto sentire il sapore. Amaro e dolce come il frutto del melograno, che rappresenta il simbolo del Mediterraneo, con quella pelle rozza e aspra che ricopre innumerevoli semi dolci e sanguigni. Amaro e dolce come la sorte di un popolo schiacciato che ogni giorno trova in questi piccoli gesti, come il rito dello za'tar, la forza di resuscitare e andare avanti.
Non ci sono popoli buoni e cattivi in questo libro, diceva l'autore. Ci sono persone buone e cattive. E persone soltanto ignoranti, nel senso proprio del non sapere, che è l'ignoranza di chiunque non abbia visto con i propri occhi, ascoltato con le proprie orecchie e raccontato con la propria voce.
Almeno quella voce possiamo regalarci il privilegio di ascoltarla.
Gianluca Solera, Muri, lacrime e za'tar, Ed. Nuovadimensione
Gianluca Solera - Muri, lacrime e za'tar
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