Ecco dove segnalare un ritrovamento o un appuntamento e/o un'iniziativa che riguardi il Bookcrossing. ATTENZIONE: NON mettete qui annunci generici che non riguardino il Bookcrossing, che hanno le loro aree apposite!
Ebbene eccoci qua
sotto incollerò tutti i racconti, uno per post, naturalmente senza segnalare di chi siano
Se qualcuno ha mandato un racconto che non c'è tra questi, vuol dire che non è pervenuto; me lo mandi via mail entro domenica che provvederò a inserirlo (già tra quelli che leggerete qui ce n'è uno che non è arrivato per motivi tecnici e quindi non faceva parte dei racconti votati dal comitato).
Per questo motivo inserirò il sondaggio lunedì 23 (però così intanto potete leggerli! ); ogni utente potrà votare un racconto (mi raccomando, fate i bravi ed evitate le personalità doppie o multiple o l'accorrere di parenti e amici... ).
Il sondaggio poi scadrà il 31 maggio in modo da avere un vincitore subito prima del MUNZ
Buona lettura.
P.S. il 3d verrà bloccato per impedire i commenti tra un racconto e l'altro, gentilmente aspettate la fine del sondaggio (quando il 3d verrà riaperto). Commenti generici si possono fare nel 3d delle votazioni
P.P.S. i racconti verranno inseriti in ordine alfabetico tra quelli già in nostro possesso, eventuali racconti aggiunti verranno invece inseriti in ordine di arrivo
P.P.S. i racconti vengono riportati esattamente come sono pervenuti; non sono state apportate né correzioni né modifiche; eventuali formattazioni particolari sono state rispettate fedelmente.
Se vede che il post è stato modificato è solo perché mi son dimenticata di mettere il titolo in grassetto e/o corsivo
Ultima modifica di liberliber il mar mag 16, 2006 12:08 pm, modificato 9 volte in totale.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto (Wilde)
I dream popcorn (M/a) VERA DONNA (ABSL)
Petulante tecnofila (EM)
NON SPEDITEMI NULLA SENZA AVVISARE!
Meglio mail che mp. Grazie.
Non pensiate ora che d’abitudine io stia ad osservare tutti quelli che mi attraversano, ce ne vorrebbe di tempo e attenzione che non potrei fare altro; però, qualcosa mi attrasse di quei due, percepii subito una tensione particolare, come un presentimento (anche se ho una mia teoria sui cosiddetti “presentimenti” che magari un giorno vi spiegherò).
Si muovevano quasi con esitazione, come se non avessero ancora deciso in quale direzione andare, né perché.
Lui: non tanto alto, scuro di pelle e di pelo, una faccia ossuta, gli zigomi leggermente sporgenti, le mani dalle dita sensibili ma con diverse piccole ferite e calli che raccontavano di un lavoro pesante, i piedi che parevano muoversi seguendo una logica diversa da quella del resto del corpo. Camicia aperta sul collo, pantaloni stazzonati, similclark marrone, vecchie e polverose; sulla spalla, tenuta con un dito, una giacchetta di velluto pure marrone e pure polverosa.
Lei: grassoccia ma ben fatta, di una carnosità dolce e sonnacchiosa, capelli biondi, poco curati e di tonalità scura (insomma mica platinati, per intenderci). Della stessa altezza di lui e, anche se così diversa, in qualche misterioso modo gli somigliava.
Descrivere il suo abbigliamento è cosa impegnativa, tanto era composito e ricco di particolari non sempre coerenti. La cosa che subito colpiva anche in considerazione della temperatura abbondantemente estiva, erano gli scaldamuscolo coloratissimi abbassati sulle caviglie e gli anfibi alti al polpaccio. Insomma un tipo bizzarro.
Ora è necessario che vi spieghi chi sono io e che lavoro faccio.
Io sono una stazione di autobus, per la precisione, la stazione di Gerusalemme e di lavoro faccio appunto la stazione di autobus a Gerusalemme.
Siete mai stati a Gerusalemme? Beh dovreste andarci, è una città molto particolare, piena di fascino, di contrasti, di dolcezza e di tensione.
La cosa che caratterizza i miei marciapiedi è l’ordine delle code dei viaggiatori in attesa dell’arrivo dei bus; ordine che si mantiene fino a che non si aprono le porte, dopo di che si scatena la rissa senza esclusione di colpi per la conquista del posto, con giovani omaccioni che non si fanno scrupoli nello spintonare vecchiette e bambini.
Già vi vedo voi lettori sgamati alzare gli occhi al cielo pensando: “Eccolo qui con la solita storia del terrorista palestinese che viene redento dalla giovane fanciulla israeliana!
Allora ZUCCONI intanto se lui fosse un terrorista non se ne andrebbe in giro con la giacchetta sulle spalle, se no come nasconderebbe la cintura esplosiva? E poi chi ha mai parlato di giovani? In realtà le loro età non erano facilmente definibili; lui forse più vicino ai settanta che ai sessanta e lei direi maggiorenne, ma da poco.
Una cosa che non vi ho ancora detto è che lei portava a tracolla una chitarra e che, dopo aver valutato attentamente i movimenti dei viaggiatori, scelse un angolo defilato, ma ben visibile dove stese il foulard violetto che portava sulle spalle sul quale si sedette non prima di aver piazzato in bella evidenza la bombetta nera che si era tolta di testa.
Quando cominciò a cantare ci fu come un attimo di sospensione, come se qualcuno avesse schiacciato il tasto “pause”. Cento facce si girarono verso di lei, non solo per la sorpresa della musica improvvisa e inaspettata, ma soprattutto perché la sua voce era limpida e tagliente come una giornata d’inverno, ma allo stesso tempo fresca e attraente come un’oasi nel Sahara (si chiamano metafore come insegnava Neruda al suo postino).
La maggior parte della gente, passata la sorpresa, tirò via verso i fatti propri, ma qualcuno si fermò ad ascoltare e poi qualche moneta cominciò a cadere nel cappello. In breve si formò un piccolo capannello del quale faceva parte anche il vecchio signore di cui vi parlavo all’inizio.
Il canto si alzava leggero, dapprima esile e incerto, ma poi sempre più fermo e sicuro e nessuno poteva evitare il fascino di quella voce suadente, avvolgente, sensuale e allo stesso tempo forte e diretta come una lama.
La gente era affascinata e al sentire quella voce e quella musica perdeva quasi la cognizione del tempo e del luogo freddo e spoglio in cui si trovava (Oh ragazzi, non è colpa mia! Avete mai visto una stazione calda e accogliente?).
Il vecchio invece pareva non subire il fascino della musica, anzi si era fatto circospetto e furtivo, si muoveva lentamente intorno al gruppetto di ascoltatori, la giacca adesso veniva tenuta con una mano stretta al corpo, mentre l’altra mano compariva e scompariva con movimenti rapidi e precisi dentro le giacche e le borse degli spettatori.
Quando la bomba scoppiò al marciapiede sette, almeno dieci persone si salvarono per aver indugiato ad ascoltare la ragazza cantare e successivamente, scoperto il furto, pensarono che in fondo il prezzo pagato per la loro vita era senz’altro conveniente.
La ragazza e il vecchio si ritrovarono la sera a casa e lei gli disse: “Nonno, bisognerà cambiare zona, le stazioni sono diventate troppo pericolose!
Ultima modifica di liberliber il mar mag 17, 2005 3:17 pm, modificato 2 volte in totale.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
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Filippo urlò. Poi aguzzò lo sguardo per vedere il viso che gli correva incontro. Voleva bene al socio. Carmelo arrivò trafelato e gli si buttò accanto. “Cosa cavolo gridi parolacce lungo la costa della collina? Immagini cosa avrà pensato ogni mamma dei condomini della zona ? Tu sei fuori di melone. Con te non vorrei entrare in società nemmeno se in cambio del tuo lavoro fossi tu a pagarmi. Si guardarono in faccia: Filippo scoppiò a ridere, Carmelo scuoteva la testa stupito.
Altri erano indaffarati nel quotidiano. I loro compagni erano in classe regolarmente. A loro due della fine del quadrimestre non importava assolutamente un piffero. “Filippo, hai visto ci siamo solo noi due sulla collina!” Filippo scoppio a ridere: “Fesso! Siamo gli unici puri di cuore.“
Altri altrove discutevano nella pausa tra l’ora di Informatica e l’ora di Tecnica Bancaria: “Veria, dove sono Filippo e Carmelo adesso ?” Lucia era disgustata. “Filippo, cacchio! Mi brucia la bocca dello stomaco.” Veria scoppiò a ridere. Lucia e Veria presero posto, il prof si sedette. E dette fiato alla bocca: “Aprite il Negri a pagina 400.” Veria guardò il prof fisso negli occhi. Lui abbassò lo sguardo e lesse a voce troppo bassa: “Le norme sulla trasparenza bancaria…” Veria alzò la mano. Il prof si accasciò sulla cattedra colpito a morte. Veria si divertiva. Lucia aggrottò le ciglia a sua volta e si fece più attenta.
Professor Renato Ventura, quarantaquattrenne, scapolo. “Veria raccontaci le nuove norme, tanto lo so che hai letto tutto.” “Se non fosse stata una frequentatrice di Azione Cattolica avrebbe usato la parola orgasmo senza alcun dubbio.” Renzo osservava divertito Veria elencare i punti dove le regole del gioco erano cambiate. Addio bella Vera. L’avrebbe assunta la Banca Popolare. Le sue labbra si schiusero “Dolcissima Veria!” Lei ammutolì. Renzo si distrasse e la lasciò continuare.
Alla fine dell’ora Ventura si sentiva abbattuto. Passò uscendo davanti al banchetto del Bidello. Bargiggia lo salutò, con la sua solita espressione dura. Ventura si fermò a guardarlo. Ventura sorrise. Si salutarono, e mentre Ventura usciva, entrava Carmelo, col viso arrossato dalla giornata di sole. Alzò la mano all’indirizzo del bidello, ignorando completamente il prof che avrebbe potuto provvedere disciplinarmente ma era troppo depresso, demotivato, e aveva fame quindi era innocuo. Si guardarono negli occhi. Il Bargiggia era fiero di Carmelo neanche fosse stato suo figlio. “La Lucia ?” Bargiggia rispose che la 5aB era ancora in classe ma il prof era già uscito.
“Dove eri ?” Fece Lucia. “Maestra cara, ero a correre con Filippo. Correre fa bene alla salute!”. Lucia lo guardò severa: “Correre fa male al fegato di mamma, se sa che corri per la collina invece di venire a lezione.” Carmelo si rabbuiò un attimo e rispose prontamente: “Le spiego una cosa, Signora Maestra. Lucia gli buttò le braccia al collo e rise: “Vai a quel paese.
Si fiondò dentro il portone del Besta. Appena nell’androne lanciò un sorriso al bidello e sparò: “Devo vedere mio figlio. Dove sta la 5aB ?” Il bidello corrugò la fronte. “La classe 5aB. Non sto mica interrompendo la lezione di nessuno.” Il bidello prese in antipatia il sorriso della donna.
“Ciao ma’.” Lanciò in saluto Carmelo scendendo le scale. “Non così ad alta voce! Disturba le lezioni!” fece il bidello a bassa voce. Carmelo lo folgorò con lo sguardo “Che cavolo dice, al pian terreno c’è solo la palestra e stanno giocando a calcetto. Non sente il chiasso ?” Il bidello si ingobbì e tornò alla sua scrivania. Si ficcò nelle orecchie la cuffia del suo lettore CD e subito si perdette nelle sue fantasticherie tecnologiche. “Ogni tanto ho la sensazione che sia un idiota.” Carmelo accennava al bidello. Si innervosì al solo ripensarci. Si trattava di prese di corrente, rubinetti, o del conto della latteria? “Dovremo comprare una macchina.” “Ah ecco.” Carmelo ascoltava. Aggrottò le sopracciglia. “Mangeremo fuori, e il pomeriggio diamo un’occhiata al concessionario. Volevo dirtelo perché Lucia andrà a casa a mangiare. Torneremo col pullman delle 1700. Di’ anche a Lucia che se vuole cucinare uno dei suoi soliti manicaretti mamma una volta tanto si lascerà coccolare da lei.” Sorrise. Carmelo sorrise pure. “Lucia ti vuole un bene dell’anima, ma’.” Sbirciò verso il bidello, che era già svanito nel suo personalissimo iperuranio.
Ecco Renzo! Che ragazzo simpatico. Carmelo lo apostrofò: “Vieni dentro, pagliaccio. Ma’ ti presento l’innamorato perso di Veria.” La madre sorrise divertitissima e soggiunse: “Renzo ? Sei tu il famoso Renzo dei sonetti a Veria ?” Renzo confermò arrossendo fino alla radice dei capelli. Renzo restò di stucco: “Devo sperarci ?” La Santonocito sembrò perfino stupita “E perché no ? Sono due anni che insisti.” Fece spallucce. Renzo si mise in ginocchio davanti alla Santonocito e ne disse una delle sue: “Signora, posso chiedere la sua mano ? Lei ha esattamente quello che mi ci vuole per vivere felice.”
Sarebbero diventati altri. Avrebbero vissuto altrove. L’idea fu del bidello. Erano tutti là ad aspettare Carmelo, l’ultimo orale della Maturità, e stavano attorno al suo banchetto. Filippo pendeva dalle sue labbra. “Dannazione!” A Filippo sfuggiva una considerazione del tipo: “Veria, avessimo viaggiato insieme per 5 anni ti sposerei.” Filippo arrossì che pareva un Renzo qualunque. In quel momento uscivano il prof Ventura raggiante con Carmelo sottobraccio. Ventura era il membro interno. Carmelo lo aveva stupito con la sua preparazione in Italiano e Diritto+Scienza delle Finanze. Del resto a lezione Ventura lo aveva visto veramente poco… Filippo si protese verso il suo socio di marina e gli urlò quasi in faccia. Carmelo non ci pensò un attimo e a bassa voce tagliò corto: “Un InterRail costa veramente poco.” Lucia convenne: “Un InterRail! Dai! Gemellino che idea!” Veria restò folgorata: “Lucia, veramente sei convinta?” Lucia la rassicurò con lo sguardo. Sembrava intenzionata ad uccidere tanto era seria. In quel momento entrarono la mamma di Carmelo e Renzo. Renzo salutò tutti e si rivolse a Filippo: “La madre del tuo socio è proprio una persona interessante. “Carmelo, so che volevi fare un InterRail questa estate.” Non era sicuro di aver capito le parole. Peccato abitare a 40km da certa gente… Il Prof Ventura si inserì: “Signora questa è una vera lezione di vita!” La Santonocito non seppe trattenersi: “Forza, prof. Non marini questa lezione. Filippo guardò il Prof. Ventura esitare un attimo. Un lungo attimo. Filippo gli saltò in braccio, afferrandogli il collo e sollevando le braccia. Nel vederli così tutti scoppiarono a ridere e Filippo sparò “E allora vengo anche io e che diamineee!” Ventura scaricò Filippo e spontaneamente guardò il bidello negli occhi. Carmelo uscì di corsa. Ventura aggrottò le ciglia e lo apostrofò: “E dove vai, Santonocito ?” “Non perdiamo tempo. Prenoto!” Il bidello agitò una mano “Non dimenticare noi tre, che siamo fuori età…” La signora Santonocito aggrottò un attimo le sopracciglia e fece “Fuori età sarà lei!” Poi scoppiò a ridere vedendo lo sguardo del Professore.
Adesso erano sul treno. Adesso erano altri. E presto si sarebbero trovati altrove. Filippo, Carmelo, Lucia e Veria guardavano tutto e tastavano tutto come se non avessero mai visto un treno. Renzo, il prof, il bidello e la Santonocito avevano lo sguardo sognante. Se ne parlerà altrove. Ma anche no.
Ultima modifica di liberliber il gio mag 19, 2005 2:31 pm, modificato 2 volte in totale.
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La primavera era arrivata anche quell’anno nell’antica capitale dell’Impero russo: la Neva cominciava lentamente a sghiacciare, lasciando intravedere le sue brillanti acque, mentre il popolo russo ricominciava pigramente a sorridere. I pietroburghesi erano sempre stati molto legati al loro fiume: ogni primavera, infatti, fino allo scoppio della Rivoluzione nel 1917, quando si assisteva al disgelo delle acque dopo i quattro lunghi mesi invernali, tutta la città era in festa e l’avvenimento veniva festeggiato con una cerimonia: il comandante della fortezza di Pietro e Paolo raccoglieva l’acqua ghiacciata in un calice d’argento e la offriva allo zar.
In quella fresca mattinata, decine di persone animavano la città: alcuni camminavano lungo l’infinita Prospettiva Nevskij, altri si sposavano ed esibivano il loro eterno amore passeggiando su meravigliosi cavalli bianchi...
Uno sguardo fugace, un odore istantaneo, un colpo di vento … urla di dolore provenienti dalle mura della fortezza, testimone di numerose inondazioni e di molteplici torture, sensazione di entusiasmo ed ammirazione per essere al cospetto di tale grandezza: la città fondata per volere di un uomo, contro ogni tradizione, ogni natura.
La creazione di Pietro il Grande si godeva silenziosamente il tepore di quella dolce giornata, provando a dimenticare gli anni sofferenti delle Purghe, gli anni dell’assedio nazista, gli anni in cui eroi e miti le avevano attribuito nomi diversi…
Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado… Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado… Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado… Pietrobur… Pietrogr… Leningr… Pie… Pie.. Len…
Una grande piazza… una piazza colorata, luminosa, immersa nella neve, dove facciate artificiali osservano la gente. E’ un enorme gigante che, sotto la sgargiante superficie, nasconde un macabro dolore, un dolore fatto di distruzione, massacro, fuoco, fiamme… la dolce Varsavia riposa, riposa il grande monumento alla Rivolta, dove visi induriti e immortalati nel loro coraggio continuano a testimoniare la dignità dell’uomo; riposano i grattacieli, le colate di cemento, i centri commerciali, tutti i nuovi padroni di quel triste paesaggio…
L’aria è pregna di dolce tradizione, timidi sorrisi, visi che vorresti accarezzare, stringere tra le braccia, sul petto… strade che vorresti consolare, piazze che vorresti baciare, palazzi che vorresti rivedere, anche solo per un istante, prima della totale distruzione, prima del tormento.
I colori sfumano, le immagini si frantumano, Varsavia si allontana… FUGAFUGAFUGAFUGAFUGAFUGA E RITORNORITORNORITORNORITORNO.
Un materasso, una busta di immondizia, una scarpa vecchia, una spazzola, un manifesto di un povero cantante conosciuto solo in qualche bar nei dintorni… le automobili-guerriere, la musica che fugge dai finestrini, l’amore che fuoriesce dai fogli di giornale… la misteriosa presenza della natura che rimane sovrana… il Vesuvio, il mare…
L’odore forte di pesce sul lungomare, l’odore di frittelle, i rumori delle navi che partono alla ricerca di altri altrove, il dialetto musicale…
Gli occhi hanno visto, le orecchie hanno udito, le narici hanno respirato, le mani hanno toccato, la labbra hanno assaporato. La danza dei sensi continua a seguire il suo corso, ha un suo presente e avrà un suo futuro; ogni altrove rimane dentro, ogni altrove continua la sua eterna riscoperta, la sua continua esplorazione.
Siamo Napoli, siamo Varsavia, siamo San Pietroburgo, siamo Budapest, Berlino, Parigi, Londra, Tunisi, Stoccolma, Barcellona, New York, Brasilia, Calcutta, Città del Capo…
E non solo altrove. Siamo anche ora, qui.
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E’ troppo realistico credere al mercato “dell’antiquariato”, a Corsico?! Figuriamoci, sono tutte patacche. A voler essere generosi si può parlare di modernariato.
“Secondo te perché negli ultimi dieci anni tutti sembrano presissimi dall’antiquariato? Sembra quasi che ognuno debba dimostrare le proprie radici, o meglio di avere delle radici, soprattutto noi che abitiamo a Milano e che ci professiamo milanesi, ma ci sentiamo sempre un po’ ospiti perché non siamo qui da sempre. Questa enorme città ha accolto i nostri genitori, gli ha offerto delle possibilità che altrove erano impensabili e ora tutti noi desideriamo dimostrare che per Milano è stato un affare: in noi ha trovato degli ottimi lavoratori e perciò degni milanesi, ma non solo, ha anche trovato della gente raffinata, dei “cittadini”, che si circondano di cose belle.”
Mentre parla lo abbraccia più forte e osserva la merce esposta nelle bancarelle: rivede molti pezzi della sua infanzia, alcuni dimenticati, come l’abat-jour cilindrica con la base arancione, il vetro bianco e la radio incorporata!
Le piace confrontarsi con lui. In passato si è sentita spesso un pesce fuor d’acqua perché le sue analisi disincantate le persone spesso non le capiscono e tanto meno condividono!
Ma con lui si trova sorprendentemente sulla stessa lunghezza d’onda. Quando capita che hanno visioni opposte si sente vacillare ma, grazie al lavoro, ha imparato a conoscersi e sa che assecondare la controparte, solo per desiderio di non contraddire e di piacere, non la porta da nessuna parte; accettare invece la fatica del confronto, arricchisce in modo insospettabile.
Passeggiano mano nella mano. Le risponde col tono di voce basso, caldo, che usa quando esprime un concetto mentre lo sta ancora elaborando: “Credo che sia un bisogno più esteso. Molti hanno bisogno di mostrare, di apparire, soprattutto le persone più deboli che si aggrappano all’immagine che riescono a dare di sé. L’immagine diventa tutto per chi sente di non avere altro valore in sé. Ma credo che, se una persona sta bene con se stessa, comprare un oggetto di antiquariato o griffato, o alla moda, non sempre sia così esecrabile, no?!”.
Si guardano e si sorridono, sapendo che in certi frangenti è ancora aperta la gara a chi dei due è il più spendaccione... Gli sembra ieri che si sono conosciuti e allo stesso tempo la sensazione di conoscersi da sempre di sovrappone allo stupore di avere sempre cose nuove da dirsi.
In un espositore di velluto non molto dignitoso, nota una spilla. E’una croce quadrata d’argento, con delle volute scavate e annerite dal tempo; al centro c’è un’ametista tonda a taglio brillante: ha un bel colore violaceo e i riflessi, con la luce, sono così luminosi!
Sente la propria voce chiedere se può toccarla Si imbarazza: si è accorta che, fissando la croce, maleducatamente non ha neanche guardato in faccia il venditore. Per rimediare lo vuole guardare negli occhi, ma lui ha preso uno straccetto azzurro ed è concentrato nel pulire la spilla. La spilla, adesso nella sua mano, le trasmette una leggera sensazione di calore.
Davanti allo specchio si affrancava la spilla alla camicia bianca aderente, chiusa quasi fino al mento. Indossava una gonna stretta in vita, che si allargava dai fianchi verso terra e una giacchina smilza, secondo l’ultima moda parigina, al passo con i tempi... Il progresso l’affascinava! Grazie agli interessi e all’apertura mentale di suo marito le era stato possibile dare libero sfogo alle sue curiosità intellettive: in casa avevano una discreta biblioteca che cresceva nel tempo.
Era orgogliosa di essere ben accetta dagli amici di suo marito. In un primo tempo era stata in imbarazzo: temeva che ascoltassero i suoi ragionamenti di economia, scienza, etica, che lei e il marito avevano tante volte affrontato assieme, solo per educazione. Ma quando provava a trattenersi con le altre signore, la pochezza dei loro ragionamenti le faceva sospirare il lume, alla cui luce si appassionava a quotidiani e libri. Provava una tonda soddisfazione solo quando una discussione riusciva a darle dei nuovi punti di vista o confermava una delle sue tante teorie.
Suo marito non solo l’assecondava, ma la ammirava per come riusciva a comporre una naturale dolcezza con tale dinamismo. Si erano scelti liberamente, e più il tempo trascorreva, più erano felici della loro scelta. Il marito a volte si incantava guardarla, soprattutto quando lei non era consapevole . Forse gli occhi non gli fornivano un’immagine veritiera ed oggettiva, ma gli bastava osservarla mentre sistemava un vaso di fiori per sentire la voglia, il bisogno di stringerla a sé e farle sentire tutta la tenerezza che provava. Amava perfino un buon numero di suoi difetti.
Tra i tanti difetti, quello che lei sopportava meno, era la tendenza ad essere “un tantino” vezzosa: avrebbe desiderato tanto comprarsi un parasole lilla! Si era imposta di non farlo solo perché non voleva confondersi con le signore che tanto cercava di evitare. Però alla sua spilla preferita non avrebbe mai rinunciato: il viola metteva in risalto i suoi occhi. Guardandosi allo specchio, si vide bellissima.
In quel momento entrò in camera suo marito, come al solito già vestito e pronto per la passeggiata domenicale. La prima cosa che lui vide fu il gatto che da tempo cercava di impossessarsi degli inutili gomitoli di sua moglie e, ora, ci era trionfalmente riuscito: un gomitolo rosa si dipanava attorno alle gambe dorate del divanetto e terminava sotto la zampina del gatto che, distratto dal suo ingresso nella stanza, si era dimenticato di colpire ciò che rimaneva del gomitolo.
La risata di suo marito la distrasse dalla visione di sé. Guardando marito e gatto, non poté fare a meno di ridere a sua volta e istintivamente posò la mano destra sulla sua spilla, come nel tentativo di fermare in essa la felicità che provava.
Mentre lei stringe in mano la spilla, lui scocca un imprevisto bacio sulla guancia, che la fa sussultare e tornare presente a se stessa e al mondo. Infatti, sorridendo, piega un poco la testa, come per riceverne subito un altro.
“Amore, ti va se ci prendiamo un gatto?”.
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Era una giornata come tante, quando improvvisamente tutto si bloccò e il flusso dei pensieri umani venne interrotto.
Esiste uno spazio, lontano e infinito, ma dire dove esso sia risulta impossibile.
Però c’è ed è proprio lì che ogni pensiero sosta nell’attesa o di essere richiamato come ricordo, oppure di essere negato e cancellato, ma non per sempre.
Considerarlo come luogo è l’unico modo per avvicinarsi a capire un concetto forse troppo lontano dalla mente umana, ma è sbagliato perché sarebbe sicuramente più corretto parlare di entità.
Sì, perché un luogo non agisce, essa invece lo stava facendo…e nel modo più crudele possibile, cioè ponendo fine a quello che a suo parere non doveva più esistere: la vita.
Quindi l’entità (chiamiamola così, anche se potremmo scegliere uno dei molteplici nomi dati da chi, avendone in qualche modo captato l’esistenza, ha cercato nei secoli di classificarla in modi in parte arbitrari a seconda delle esigenze collettive del momento) è pensiero puro e come tale “legge” ogni singola elaborazione mentale umana valutandola come positiva o negativa. Tale valutazione viene da sempre svolta in nome di un'unica regola, posta dall’entità stessa e così riassumibile: La vita umana sarà terminata nel caso in cui la somma complessiva dei pensieri negativi superi, per un periodo maggiore a 100 anni, la somma complessiva dei pensieri positivi.
Certo può sembrare una regola sciocca agli occhi di chi con fretta e presunzione rapporta ogni cosa al piano umano, essa però non risulta concepita come avvertimento rivolto all’uomo, bensì all’entità stessa. Il pensiero puro trascende i concetti di bene e male, ma sa che quello umano non ne ha facoltà. Sa che quest’ ultimo nasce libero perché non può essere altrimenti, ma unito a limiti consistenti nell’impossibilità di conoscere le proprie conseguenze prima che queste si verifichino.
Ovviamente l’entità aveva già assistito nei secoli a momenti in cui il negativo aveva superato il positivo, ma sempre tutto si risolveva e ciò aveva contribuito a generare in essa un tipo di sentimento che potremmo paragonare alla fiducia.
Ora però la regola era stata violata. Da troppo tempo il negativo regnava e l’entità sapeva che terminare era logica conseguenza, ma essa, pensiero puro, non riusciva a capire cosa fosse ciò che avvertiva. Era qualcosa di simile al disagio, forse paragonabile al dubbio, comunque capace di ritardare il termine.
Difficile quantificare il tempo riferendosi a chi ne vive al di fuori, ma si può dire che l’entità mai aveva atteso ed ora lo stava facendo, con il solo scopo di capire perché non riusciva a compiere ciò che essa stessa aveva imposto, non tanto come dovere quanto a tutela del proprio stesso operato.
Fu quando il pensiero smise di essere puro che essa capì cosa la frenava e, accorgendosi di essere ormai “corrotta” dal sentimento affettivo nei confronti dell’umana razza, decise di rivedere la situazione. Libera dalla schiavitù della cieca razionalità, l’entità cominciò a considerare i pensieri umani nella sostanza oltre che nel numero e si accorse del diverso peso che questi potevano avere. Postivi e negativi sono le due parti di un tutto comprensivo di divisioni interne riguardanti la natura stesa del pensiero che può quindi essere, ad esempio, di natura personale, cioè rivolto ai singoli, o di natura universale, cioè rivolto al bene comune.
Rivalutò quindi ogni singolo pensiero umano, accorgendosi che i positivi erano sì numericamente inferiori ma tendenzialmente universali e, come tali, carichi di un’intensità capace di spostare l’ago di quella bilancia razionale colpevole di avere generato un giudizio ancor prima di possedere ogni elemento.
Ora l’entità si trovava di fronte ad una decisione. Alla luce di un nuovo modo di pensare, doveva formulare un nuovo giudizio, in merito al termine o meno della vita, e si rese conto di poterlo fare solo dando libero sfogo alla strana sensazione, precedentemente paragonata alla fiducia, ma forse più affine al sentimento di speranza.
Rivalutò ancora una volta ogni singolo pensiero, con l’intento di trovarne anche uno solo capace di aprirla alla speranza.
Non si sa quando tutto questo accadde, si sa soltanto che alla fine l’entità trovò quello che stava cercando.
Era il pensiero ripetuto mille volta da chi, di fronte a difficoltà ogni giorno più grandi, circondato spesso da sentimenti che dal concetto di bene non potrebbero essere più lontani, spinto dal cinismo di tutta un’epoca verso errori coscienti ma apparentemente inevitabili, continuava a non cedere alla facilità del “non credere”.
Era il pensiero di chi, pur avendo sbagliato innumerevoli volte, continuava a vivere la propria moralità da protagonista senza cadere nella trappola di coloro i quali propongono dogmi che nulla hanno a che vedere con l’umana coscienza e che regalano soluzioni senza che si possa riflettere sul problema.
Era il pensiero di chi aveva continuato ad avere il dubbio che ci fosse qualcosa di sbagliato nella strada che tutti stavano percorrendo ed aveva avuto il coraggio di dirlo, noncurante delle derisioni e di tutto il dolore che ciò gli avrebbe causato.
Ed aveva avuto ragione.
Perché fu proprio quel pensiero a ridare la speranza e, con essa, la vita.
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Sono arrivato da pochi giorni in questo luogo, ma non mi
sono mai sentito un estraneo.
Il cartello davanti a me recita "Parco della Stazione". Per la verita' questo posto sembra piu' un giardino zen, del resto e' inevitabile: qui l'acqua e' preziosa, occorre farne un uso molto oculato. Niente vegetazione.
Serafina non mi ha visto, sta leggendo seduta ai piedi della statua di Galeno. La sua figura esile e' avvolta in un abitino di lino azzurro. Le dita sottili sfogliano le pagine e una ciocca di capelli bianchi le scende sulla guancia, sfuggita al fermaglio che regge una morbida crocchia, tanto simile a quella di mia nonna, nei miei ricordi di bambino. E mi torna in mente il movimento delle sue mani, cosi' armonioso, dolce e sicuro, sia che mi passasse le dita fra i capelli o che le facesse scivolare sul pianoforte o sul tagliere di legno mentre chiudeva ritmicamente i tortelli, che faceva, cantando, per tutta la famiglia.
Serafina ha quasi settant'anni, quindici di meno di quelli che aveva la nonna quando ci lascio', ma e' sola da tanto tempo. Cio' nonostante non ha mai perso il sorriso. Nemmeno quando e' arrivata la malattia. Mi avvicino a passi lenti, lei alza lo sguardo e incontra il mio. I nostri occhi si sorridono, con la complicita' e, insieme, la solidarieta' che piu' di altrove e'
facile trovare qui.
Mi siedo accanto a lei proprio nell'istante in cui Chiara e Federico entrano nel bar della stazione, di fronte al parco. Qui e' facile anche avvicinare gli altri, fare amicizia. Sembra che il tempo scorra piu' lentamente di altrove. Chiara e' stata la prima persona che ho conosciuto al mio arrivo. Forse colpa di questa luce inebriante, mi e' apparsa come una visione
evanescente, un'entita' soprannaturale, cosi' luminosa da sembrare irreale, quasi eterea, coi capelli rossi e ricci sciolti sulle spalle vestite di bianco e con un sorriso che mi e' arrivato al cuore.
Mi ha dato il benvenuto con una stretta di mano decisa: quel contatto mi ha restituito il senso della realta' che stavo perdendo nei suoi occhi chiari e nei 35 gradi soffocanti che ho trovato scendendo alla stazione. Poi mi ha accompagnato a destinazione e, da quel momento, e' entrata nei miei pensieri piu' costanti.
Chiara e Federico escono dal bar: lui le porge un gelato che ha appena estratto dalla confezione, si scambiano ancora qualche frase e qualche sorriso. Poi lui si allontana. Confesso che lo invidio un po'.
Federico e' laureato in biotecnologie, me lo ha raccontato in una delle nostre
chiacchierate, fra una discussione di calcio e l'altra. Mi sono fatto l'idea che debba essere una cosa interessante. Ora pero' sono io che devo andare. Ho dei tempi da rispettare, non devo dimenticare il motivo per cui sono qui. Saluto Serafina e mi avvio, non senza controllare con la coda dell'occhio i movimenti di Chiara, che percorre la mia stessa strada, lentamente, reggendo il gelato in una mano, senza raggiungermi.
Sono pronto. E' l'ora del mio "bagno di nebbia". Il quinto. Fra dieci giorni torno a casa. La navetta mi riportera' sulla terra in otto ore. "Misilmeri", la stazione di cura orbitante, funziona ormai da diversi anni, insieme ad altre, e con ottimi risultati. Grazie alle tecniche che qui vengono praticate, molti tumori sono per lo piu' curabili al cento per cento, e i risultati su altre malattie, finora temute, sono tali da lasciare sperare che fra poco l'umanita' si potra' liberare di altri fardelli. Ogni giorno, prima di entrare nella stanza della terapia, bisogna apporre data e firma sul registro. Chiara, nel suo eterno camice bianco, mi porge la biro. E' il mio turno. Francesco Monti, 18 gennaio 2055.
(Dieci giorni forse non saranno sufficienti per conquistare Chiara, ma ho saputo che lei e' di Torino, come me. Si e' laureata in biologia l'anno scorso, fra tre mesi avra' terminato il tirocinio a Misilmeri e tornera' a terra: ci puoi scommettere che la invito a cena...! Sento che lei accettera', in fondo ho gia' 13 anni)
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto (Wilde)
I dream popcorn (M/a) VERA DONNA (ABSL)
Petulante tecnofila (EM)
NON SPEDITEMI NULLA SENZA AVVISARE!
Meglio mail che mp. Grazie.
Iraq settentrionale, zona Kirkuk.
Rapporto ten. Mayer 5° divis. corazzata 36° plotone.
Missione di ricognizione.
15 Aprile 2003.
Alle ore 3.50 pm il nostro mezzo Hammer è stato colpito dall’esplosione di una mina nei pressi di un’oasi, peraltro risultata in secca.
Ferito in modo lieve il caporale Nora Putwyk, solo escoriazioni per gli altri cinque effettivi.
Il mezzo è tuttavia fuori uso in seguito all’incendio sviluppatosi in seguito all’esplosione, così come le comunicazioni e il rilevatore satellitare.
La nostra posizione è incerta e le scorte di acqua e viveri sono andate in gran parte perdute nell’incendio.
Consultatomi coi sottufficiali, ho preso la decisione di allontanarmi a piedi in direzione nord, visto che la base è a eccessiva distanza verso sud. La speranza è di trovare un punto di appoggio per organizzare il recupero del resto degli effettivi e il loro rientro.
Razionando viveri e acqua rimanenti, i miei sottoposti dovrebbero riuscire a sopravvivere tre-quattro giorni; quel che resta del mezzo dovrebbe servire da riparo.
Marcerò di notte, per sfruttare le ore fresche e confermando l’orientamento della bussola con le stelle. Durante il giorno mi riparerò costruendo col telo un rifugio di fortuna, come da corso sopravvivenza.
Porterò questo diario come testimonianza per chi mi dovesse trovarmi… nel caso fallissi.
Che Dio mi assista.
16 Aprile 2003.
Percorse approssimativamente 12 miglia. Nessun avvistamento. Domani proseguo verso nord.
17Aprile 2003.
Percorse approssimativamente 9 miglia. Nessun avvistamento. Affaticamento crescente, ma stato di salute soddisfacente. Esauriti viveri, acqua scarsa.
18 Aprile 2003.
Ancora niente. Scorta acqua quasi finita. Non credo resisterò più a lungo di domani.
Dio benedica l’esercito degli Stati uniti, a cui offro la mia vita.
21 Aprile 2003.
Ieri verso il tramonto ho raggiunto un insediamento, un piccolo villaggio. Non ho la minima idea di come, visto che ho vagato in stato di semicoscienza. La popolazione locale mi ha soccorso e in qualche modo gli abitanti sembrerebbero avere capito la situazione, nonostante il manuale di conversazione in arabo non mi sia servito per niente, sembrerebbero parlare un dialetto molto differente. Alcuni degli uomini sono partiti con dei cammelli alla ricerca dei miei compagni. Adesso devo solo sperare che abbiano la stessa fortuna che ho avuto io.
Sono debolissimo, ma credo che il peggio sia passato.
22 Aprile 2003.
Oggi sono stato in grado di alzarmi. Ho preso contatto coi civili, sembrano incredibilmente sereni e non tradiscono alcuna preoccupazione nel trattare con me; il fatto che io sia un militare non sembra impressionarli. Uomini e donne mi guardano da dietro veli e copricapo. Dividono con me spontaneamente cibo e acqua. Una cosa strana è che non sembrano esserci bambini, solo adulti.
Sono debolissimo, passo sotto una tenda la maggior parte della giornata.
23 Aprile 2003.
E’ un miracolo. Stamani all’alba, salutati dal canto delle donne del luogo sono rientrati gli uomini che erano usciti per la spedizione di salvataggio.Trasportati sui cammelli, i miei effettivi sono arrivati tutti e cinque. Sono malconci per la prolungata esposizione al calore e per la disidratazione, ma sono tutti vivi; il caporale Putwik sta in questo momento ricevendo le cure di un membro della comunità che ci ospita.
C’è una composta aria di soddisfazione fra gli abitanti del villaggio.
24 Aprile 2003.
Stanotte nel villaggio si sono levate in canto voci femminili e poi un basso coro di voci maschili ha fatto eco; a lungo hanno cantato canti incomprensibili ma struggenti. Forse una forma di benvenuto, ho pensato.
Stamani il morale dei miei uomini era alto. Il Sergente Whitehead mi ha espresso a nome della truppa la loro gratitudine; gli ho risposto che a questi sconosciuti dovevano la maggior parte di essa.
Ho cercato di capire di più di questo posto. Mi chiedo come gli abitanti siano rimasti impermeabili alla propaganda del regime, visto che non sembrano nutrire ostilità, ma neppure sospetti, verso noi militari. Forse la spiegazione va ricercata nel loro isolamento; oppure, visto che non ostentano alcun segno di appartenenza religiosa, praticano una loro forma di filosofia particolarmente aperta e conciliante.
Vivono una vita semplice e povera, ma non mancano di sostegno e sembrano dignitosamente sereni.
La barriera linguistica ci divide, ma dobbiamo loro la vita e vorrei potere esprimere loro la mia gratitudine in qualche modo.
26 Aprile 2003.
Passata l’euforia per il salvataggio, negli ultimi due giorni si è posto il problema del ritorno. Vi sono difficoltà oggettive; non sappiamo bene dove siamo né abbiamo alcun modo di farci rintracciare.
Sono sorte tuttavia difficoltà di tutt’altro genere: il Sgt. Whitehead pare assai poco collaborativo nel cercare di organizzare il nostro rientro. Accampa ogni genere di difficoltà per rimandare una decisione, ma appare chiaro che le recenti esperienze e l’oggettiva attrattività della vita in questo villaggio stiano fiaccando il suo spirito militare. Temo peraltro che questo possa influenzare gli altri.
I canti notturni continuano, e sembrano sempre più malinconici.
27 Aprile 2003.
La situazione sta cambiando. Gli uomini sono apertamente schierati col sergente, che è contrario a ripartire. I miei richiami all’ordine sono stati inutili. Non è servito neppure minacciare la corte marziale e non possiedo più la pistola di ordinanza, credo di averla persa nel deserto.
E d’altra parte inizio a chiedermi che senso avrebbe tornare indietro, e se davvero non sia meglio restare. Voglio dire, le sorti della guerra non dipendono certo dal nostro rientro. Per quanto ne sa l’esercito siamo morti tutti e sei, e così sarebbe se non fosse stato per questa gente.
Gli abitanti assistono senza commentare, ma devono avere intuito che sta succedendo qualcosa: ieri notte non hanno cantato.
28 Aprile 2003.
Non c’è nessuna speranza di lasciare questo luogo per ora, ormai è chiaro.
Di fatto, sono un disertore. Non avrei mai creduto finisse così.
Ho passato giorni difficili. Ma credo di avere finalmente compreso. E’ il luogo. Questo villaggio è sconosciuto perché di fatto non esiste; forse era abbandonato, ma ora è abitato da… altri come noi. Negli ultimi giorni hanno sollevato veli e copricapo, e li ho visti in faccia; gente di ogni dove, di ogni era. Neri, biondi, nordafricani; uomini soprattutto, qualche donna. Disertori, fuggiaschi.
Ora capisco la loro lingua come fosse sempre stata mia, e i loro canti, che narrano la loro storia: questo è il villaggio dei rifugiati di tutti i tempi, di chi fugge dalla guerra, di chi abbandona le armi, siano esse uno scudo o il mitra.
Questo posto è un posto di pace, ed è fuori dal tempo.
Ora so che il mio destino, e quello dei miei uomini –i miei fratelli, ora- è questo posto senza nome.
Io resto qui.
Iraq settentrionale, zona Kirkuk.
Rapporto cap. Lefebve 5° divis. corazzata.
Missione di ricerca.
26 Maggio 2003, ore 7 pm
Rinvenuto il corpo senza vita del Ten. Seymor Mayer, circa 25 miglia a nord del punto dove abbiamo trovato i resti dei suoi effettivi e il veicolo fuori uso. Ritrovato un diario, gli appunti si fermano al 18 aprile.
Presunta morte per inedia e consunzione.
Nota a margine: probabilmente per l’effetto della disidratazione della pelle del volto, ma l’espressione sul volto richiama un sorriso.
Rientriamo alla base, visto che la ricognizione aerea dice che non vi sono insediamenti nel raggio di decine di miglia.
Ultima modifica di liberliber il mar mag 17, 2005 3:44 pm, modificato 8 volte in totale.
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Oggi devo fare mille cose.
E’ un altro giorno, diverso da tutti gli altri.
Sto per intraprendere un viaggio, stavolta veramente speciale. E’ una cosa che alla fine fanno tutti anche se veramente costoso. Maldive, Polinesia? Ci siete già stati anche voi?
Dove allora? A che prezzo?
Non siate troppo curiosi, lo dirò alla fine, prima di lasciarvi. Adesso devo dire ciò che sento.
E poi ho anche un trasloco, l’ennesimo. Una nuova destinazione. Ma non mi sono mai spostato così lontano ed è tutta un’incognita per me. Per me così razionale e programmatore, ma in fondo anche curioso.
Mille cose da fare….cose dell’anima più che pratiche. Vediamo…
Stavolta che mi reco così lontano riuscirò a dire a tutti quelli che rimangono che gli ho voluto bene? Che tutti, in quanto parte della mia vita, nell’incrocio delle nostre esistenze, sono stati parte del mio essere, del mio carattere, della mia crescita, di me?
E che è stato amore per tutte Voi, stelle polari del mio cielo.
Per primo, un saluto agli amici. Quelli persi, quelli che non hanno meritato la mia amicizia e quelli attuali. Vorrei salutarli tutti, chissà quando ci rivedremo.
E poi vorrei dedicare tempo a tutte le S., le M., le L. della mia vita sentimentale. Qui mi occorre molto tempo…ho tanto da spiegare. Soprattutto come le emozioni ed i sentimenti, spesso, corrono più veloci delle parole. Poi, quello che non riuscirò a spiegare, lo trasmetterò con un abbraccio, il più sentito. Ce la farò? Sarete in ascolto per sentire la sensazione di benessere, il calore che altre volte ci siamo trasmessi nei nostri cuori? Per favore rimanete sempre in ascolto, sempre! Il cuore non può gelare, il gelo è sinonimo di morte. Noi siamo persone speciali, emotive, talvolta irrazionali, ma il mondo ha bisogno anche di questo…ha bisogno di Noi.
Vi ho amato e tanto vi ho amato quanto vi ho arrecato dolore. Lo so, mi è stato detto.
E' la vita... ... ... è la vita?
A tutti ed a Voi in particolare dico mi spiace. Mi spiace che io non sia risultato lo stesso della foto che avete guardato. L'attimo è fermo e nella sua immobilità diventa asettico. La vita invece scorre e nello scorrere quanti ostacoli ci mettono alla prova. E così si devia verso strade diverse, non sempre scelte, non sempre giuste.
Più tardi, come tante altre volte, non ci sta bene un aperitivo coi colleghi? L’happy hour della staffa! Chissà poi perché happy hour…cosa sarà che fa sentire happy? Sarà la fine della giornata lavorativa? La luce del tramonto, sempre così affascinante?
E’ il momento della giornata che preferisco, quando si tirano le conclusioni e ci si prepara al rilassamento. Poi quella luce, non così violenta e nemmeno buia…
Penso che bisognerebbe partire sempre al tramonto. Con quella luminosità così malinconica e nello stesso tempo carica d’aspettative future.
Ma sto divagando. Non posso perdere tempo, cerco sempre d’essere puntuale e non mi aspettano certo per andare.
In ultimo una visita ai miei familiari. Non è mai accaduto che mi allontanassi così. Chi avrà un occhio per loro? O forse sono sempre stati loro ad averlo per me? Quante incertezze.
In fondo non è mai facile fermarsi a riflettere sulla propria vita. L’ho fatto o almeno ho tentato e non sempre i risultati posso considerarli soddisfacenti. Ma sono convinto che bisogna conoscere, in primo luogo, se stessi. E’ il punto di partenza. Quanta forza si acquisisce dall’essere cosciente dei propri pregi e difetti, dal saper giudicare prima se stessi e poi gli altri.
Ma quante discussioni mi ha portato il non voler riconoscere sempre che il mondo è formato da mille tonalità di grigio? Quanta rigidità devo imputare alla coerenza, al rispetto dei propri valori?
Sappiate tutti Voi, persone della mia vita, che vi ho rispettato anche se non sempre sono riuscito a dimostrarlo, ad esternarlo.
Sempre con Voi mi devo scusare se ho aspettato che le cose accadessero anziché decidere ed intervenire e se in questo vi ho coinvolto. Spesso le cose in apparenza facili sono le più tentatrici.
Che cosa dire poi a tutti quelli con cui ho riso, ho pianto, ho giocato ed ho lavorato. Talvolta un gesto vale più delle parole e quindi nuovamente stringiamoci la mano, abbracciamoci senza vergogna.
Un’altra giornata di corsa e temo di non riuscire a concludere niente…non sarebbe la prima volta.
Ma è poi così necessario questo correre? Probabilmente i miei saluti non raggiungeranno tutti i visi incontrati, quelli amati e quelli passati, ma chi sarà in ascolto prima o poi avrà mie notizie. Sarò lontano sì ma anche vicino. Lo scrive sempre Richard Bach “nessun luogo è lontano” e “se vuoi essere vicino ad una persona che ami non ci sei forse già?”. Se viene così tanto letto significa che in molti lo condividono e ciò mi rassicura.
Ormai si è fatto tardi, mi aspettano, devo tornare.
Dove devo tornare così di corsa? Ma diamine, non l’avete capito? Al mio cimitero.
Accidenti a quella macchina che non ha rispettato il rosso. Il mio scooter non mi ha protetto abbastanza. Lo si mette in conto ma non si pensa mai che possa capitare a te.
Ah! Prima d’andare….dove andrò, ognuno ha la sua propria idea. Sarà bello, ne sono certo e non può finire qui. Ma quanta paura!
A proposito, immagino che vogliate conoscere il prezzo. A costo della vita direi!
Bon Voyage! E su con la vita, Voi che l’avete!
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Roma in autunno regala spesso serate quasi estive e quella sera d’ottobre non fece eccezione. Silvia finì di studiare tardi, come al solito. A lei piaceva dormire, svegliarsi tardi la mattina e cominciare a studiare nel primo pomeriggio. Dopo la pizza a Trastevere, le nostre parole ci trovarono al Portico. Seduti sul gradino di un negozio chiuso, continuavamo a goderci quella serata. Era una serata speciale. Uno di quegli appuntamenti che capitano raramente. Conosci qualcuno, ci parli pochi minuti e senti già, sentite già, che state pensando a quando vi rivedrete. E’ una persona perfetta, pensi. Era la prima volta che ci vedevamo da soli e sapevamo come sarebbe finita. Ma non avevamo fretta. Le ore correvano e non capivamo se stavamo cercando di prolungare un finale inevitabile, quanto piacevole oppure se il piacere consisteva nelle piccole scoperte che facevamo col passare dei minuti. E’ incredibile quante cose in comune si possono avere con dei quasi sconosciuti. Erano passate le cinque del mattino e noi avevamo ancora un mucchio di cose da scoprire.
Erano da poco passate le cinque del mattino. In quei giorni c’era tensione al Portico. Anche se molti di noi pensavano che dopo il patto dell’oro non avremmo corso grandi pericoli. Come si sbagliavano. Erano notti quasi estive, ma non così afose. Non fosse stato per le mie paure di bambino avrei fatto sogni meravigliosi. Quella notte però stavo dormendo bene ed infatti ci misi un po’ a capire se quei rumori e quelle luci erano parte di un sogno oppure di uno strano reale. Mio padre era ferroviere e quando due anni prima mi aveva portato alla stazione Tiburtina, lo sferragliare dei vagoni, le porte che si chiudevano, i fischietti, le valigie e i saluti mi avevano affascinato. Sembrava quasi di entrare in un altro mondo, fatto di ferro, fumi e carrozze così grandi che ancora mi chiedo come facessero a camminare. Ogni tanto questo mondo entrava improvviso nei miei sogni. Ecco perché quella notte ci misi un po’ a capire che il ferro che batteva contro i sampietrini apparteneva al reale più vicino ai sogni che avessi mai visto. E purtroppo vissuto.
Cominciava ad albeggiare, i primi riflessi del sole sui tetti del Portico D’Ottavia cominciavano a scoprire tetti e terrazzi che fino ad allora avevano ascoltato i nostri racconti in silenzio. Decisamente più i suoi. Io come al solito, ascoltavo con grande attenzione, parlavo con grande fatica. Riuscivo a rimanere affascinato dalla morte del padre in giovane età, come dal vicino di sedia alla facoltà di filosofia che improvvisamente, durante la lezione, le passava bigliettini con frasi d’amore degne dei peggiori cioccolatini.Oggi lei non c’è più ed io non so se quello che sentivo era amore. Se n’è andata, forse in un mondo migliore di questo, un sabato mattina di tanti anni fa ed io non le ho mai detto niente di tutto questo. Era amore? Forse no. Dovevo dirglielo. Comunque. Ma non l’ho fatto. Ed ora me ne sto qui seduto su quello stesso gradino a fissare negli occhi quell’uomo stanco al primo piano del civico 48 del Portico D’Ottavia. Come se quelli fossero gli occhi di questo posto dove forse, due persone hanno provato qualcosa che è bello ricordare anche dopo tutto questo tempo. Forse anche quegli occhi fanno parte di questa piazza. Forse anche loro hanno vissuto qualcosa di indimenticabile proprio qui, vicino a questo gradino.
Attraverso le fessure delle persiane vidi il Portico che si illuminava. Prima quel rumore di metallo sul selciato, poi quelle piccole lucciole impazzite che si sparpagliavano giù per la piazza infine quella luce enorme. Erano i tedeschi. Le loro scarpe chiodate sembravano biglie di vetro che cadono sul pavimento, i loro elmetti riflettevano la luce come una danza di insetti notturni e il giorno si era acceso all’improvviso come quei fari da campo. Era iniziato. E noi non lo sapevamo ancora. Improvvisa arrivò la paura. I primi ordini, urlati in quella lingua lontana e metallica erano quasi peggio del rumore delle scarpe, che ora avevano il suono meno tintinnante, ma più deciso delle suole sui gradini e sui tappeti degli appartamenti. Il terrore mi prese lo stomaco quando cominciai a vedere alcuni bambini buttati sui camion direttamente dalle finestre. Rimasi alcuni interminabili istanti completamente paralizzato. Poi, non so come, mentre mamma era scesa a tentare di fermarli non so in che modo, presi le mie sorelline e cominciai a salire le scale. La porta dell’avvocato del quinto piano era aperta, la casa era già sottosopra. Aprimmo le porte di un armadio rovesciato e restammo lì. Per quattro giorni.
Penso che il Portico D’Ottavia sia un pò mio. Mi appartiene di diritto. Queste mura, non so in che modo, hanno assorbito un po’ di me e anche un po’ di lei e della nostra gioventù. Quando posso ci passo sempre volentieri, mi sembra di tornare a respirare l’aria pulita di quella sera d’ottobre. Sembra incredibile che poco meno di quaranta anni fa stavo festeggiando qui il mio compleanno con Silvia. La prima pizza che riuscii ad offrire ad una ragazza. Era il 16 ottobre del 1968.
Ci trovarono dei conoscenti che erano scappati all’ospedale dell’Isola Tiberina. Andammo a vivere con una nostra zia, al civico 48. Solo più tardi seppi che mio padre fu ucciso dai fascisti. Scoprirono che spiombava i convogli che partivano per Auschwitz dalla stazione Tiburtina. E’ morto con la speranza che qualcuno sia riuscito a saltare giù prima di arrivare a destinazione. Nella razzia del ghetto di Roma al Portico D’Ottavia vennero portati via milleeventidue ebrei romani, tra i quali mia madre. Alla fine della guerra tornarono quattordici uomini e una donna. E non era lei.
Era il 16 ottobre 1943.
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un punto “.” è il luogo dove infinite rette s’intersecano, addirittura dove il silenzio prende vita. Per quanto piccolo possa apparire proviamo ad entrarci o meglio vediamo come lui entra nella nostra vita costantemente…
Punto e capo!
Un luogo così importante da farci cambiare in quel momento la nostra vita, Se non fosse da quel punto di vista? Eccoci proiettati immediatamente in un altro luogo - o forse è lo stesso punto che viaggia con noi fino ad un nuovo riferimento. Ma di punto in bianco ci troviamo in una nuova situazione inattesa, ma un punto bianco su un foglio bianco come lo vediamo? forse è proprio quella la sorpresa: lui emerge quasi come un’isola e ci salva da quel mare d’infinita indeterminazione. Per arrivare alle 8 in punto, lo vedete? È lì il puntino, sul quadrante del vostro orologio analogico che vi ammicca. È cotto a puntino, l’ora di cena vive di questo luogo minimo che indica la perfezione, si la perfezione vive in un punto. D’altronde cosa ci vuole a mandare tutto all’aria? Un niente, un altro punto.
Il punto, questo luogo nello spazio, nel tempo ci accompagna fino in fondo, in punto di morte.
Il punto è luogo, fino al punto di racchiuderci tutti: un punto nella via Lattea: la terra, lo scenario delle nostre vite, e ora comincia la storia: “...”
Ultima modifica di liberliber il mar mag 17, 2005 3:59 pm, modificato 1 volta in totale.
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Mezzo chilo. Un altro mezzo chilo. Di certo non posso andare avanti così, con la bilancia che ogni maledetta volta segna il mio lento declino.
La pioggia cade copiosa dal cielo plumbeo che sovrasta la città in questa sera da lupi, ticchettando ritmicamente sui vetri delle mie finestre, gocce frequenti che rimbombano tra le sale di quest’appartamento deserto, creando la sensazione che sia molto più vuoto e desolato di quello che in effetti è; e la sensazione la vivi dentro di te, come se fosse un vampiro che ti stia succhiando le energie vitali direttamente dal cuore. Pochi secondi, le chiavi nelle mie mani, la porta di quelle stanze, di quelle casse armoniche per le gocce che cadono fitte, alle mie spalle, chiusa, mentre scendo le scale verso un’altra notte tra le braccia della mia migliore amante.
La città, come suo solito quando le nubi scaricano il loro contenuto su una terra riarsa dalla sete, sembra un’altra, quasi un fantasma rispetto alla trafficata e caotica selva di persone, macchine e animali che passano la maggior parte del tempo nei loro quotidiani tragitti ad insultarsi, a prendersi in giro, a vociare per una frenata brusca o per un incedere troppo lento sulla loro strada, con l’acqua che cala copiosa sono in pochi a intraprendere le vie e i corsi, e lei respira e si mostra con un aspetto seducente e ingannatore; quanti ricordi, quante notti come questa ho passato camminando per le strette vie del centro, mal illuminate da lampioni funzionanti solo per caso, lontano dai fulgidi neon dei night e delle pubblicità in cima agli alti palazzi, fermandomi a chiaccherare con l’occasionale barbone che tentava, invano, di dormire qualche ora prima di dover mollare la sua panchina ad adolescenti coppie con vestiti peggio conciati dei sui stracci.
Quanta gente hai rovinato, quanta ne hai ridotta a vivere di rifiuti e case di cartone, tu che ad ogni angolo sei capace di offrire qualsiasi tipo di svago e divertimento, che ammicchi a chiunque venga da fuori e poco ti conosce per quella che sei, promettendogli comodità e successo, facendo credere quasi che tutto è più semplice, tutto è a portata di mano, basta allungare le braccia e aprire le proprie palme per toccare quanto di meglio ci sia al mondo, e poi, spietata, sveli l’illusione che hai creato e ti mostri per quella che sei: un’ingorda, una famelica Salomè che abbraccia con voluttà le proprie vittime prima di farle sparire, per sempre, tra le proprie braccia; ho ancora in testa quella prima notte, eri affascinante e travolgente, ovunque era un’occasione per divertirsi, per ridere, per provare piaceri e lussi sempre diversi, io con gli occhi di un bambino al luna park, sempre pronto a gettarmi dentro le nuove attrazioni che mi si paravano di fronte. Quanto ti ho amato quella notte, quanto mi hai dato di te, facendoti poi scoprire con la luce dell’aurora che piano piano s’arrampicava tra i tuoi palazzi più belli, mostrandoli sotto una luce che sono in pochi a vedere, e che spesso ho voluto rivedere.
I semafori lampeggiano, la radio sputa fuori canzoni come se non ci fosse un domani, col volume abbastanza alto da coprire il tamburellare delle gocce sulle lamiere di quel vecchio catorcio che mi accompagna da troppo tempo, ogni tanto incrocio una macchina, sparata a tutta velocità sui grandi viali, come se correndo all’impazzata si possa sfuggire alla tua perfidia; ho fame, ma non posso fermarmi ad un chiosco, uno di quelli che ospiti ogni notte permettendo a chi vuole un rapido spuntino fatto di grassi, non posso permetterti di distruggermi ancora, di portarmi un altro passo verso il baratro, di ingoiarmi per soddisfare la tua, di fame; eppure ancora adesso ti amo, un’altra come te non l’ho trovata, negli anni, che più mi coccolasse, solo con te ho toccato le più alte vette della realizzazione umana, solo con te ho potuto dire “sono felice”; quante volte ti ho decantato la tua bellezza, la tua freschezza, il tuo essere giovane, a volte ribelle e tu ne eri appagata, sorridente e gioiosa ogni volta a sentire le mie parole, almeno fino a quando non hai trovato qualcun’altro su cui puntare, a cui mostrare quanto si potesse ottenere, abbandonandomi al mio destino, cacciandomi da quel podio che mi sono guadagnato con tanto sudore. Ma non sono ancora vinto, c’è ancora qualche possibilità che io torni ai miei fausti giorni, nonostante il tuo disprezzo, la tua non-curanza, e non sarai tu a portarmi a quella vetta, non lo farai una seconda volta, per te io non sono altro che un giocattolo vecchio ed usato.
Il motore della macchina che per anni mi ha scarrozzato per le tue arterie, d’improvviso si spegne, la lancetta dell’indicatore ben oltre la tacchetta che indica un serbatoio completamente proscugato, distratto come sono non ho badato al carburante e adesso non mi rimane che abbandonare il vecchio catorcio e cercare un distributore, con in tasca abbastanza denaro per un pompino e sei giorni di indigenza, un digiuno che si protrae ormai da mesi e che finirà per straziarmi, in attesa di una chiamata che potrebbe riportarmi alla vita e non a questa mera pantomima; le tue nuove luminarie con le loro luci ambrate ad avvolgerti qui non sono giunte, i lampioni illuminano a intermittenza il grande viale dove mi trovo, in fondo alla strada un cartello che sotto questa pioggia incessante sembra un miraggio, il percorso un bazar di tentazioni e pericoli: occhi impauriti sotto ombrellini da borsetta e vestiti succinti a mostrare la mercanzia, figure nell’ombra che ti sussurrano di mondi nuovi ad un prezzo ridicolo, che ti chiedono se vuoi qualcosa, se hai qualcosa, che ti invitano a giocare con loro il tuo futuro attraverso la lama di un coltello; il tuo lato sporco, quello che non vuoi far vedere ma che ti porti appresso sempre, quello che copri con la tua rispettabilità, i grandi progetti, le grandi idee, quello che usi più spesso per saziare il tuo famelico appetito di dissoluzione, di vergogna, di distruzione, quello che scopri dopo aver visto lo splendore e la magnificenza della tua altra faccia: puttana, mi hai trascinato senza sosta, senza pausa per le tue strade non accorgendomi di essere agli ultimi sgoccioli di benzina, lontano da casa, ebbro ancora una volta della sensazione di dominarti, di averti mia e solo per me; che stupido che sono, nonostante ti conosca bene ancora ci casco, ancora mi illudo di poterti avere, anche se solo per una notte.
Punto forte, non saranno i miei pochi spiccioli a cambiargli la via, mentre a me servono dannatamente, dato che non ho altre risorse, ma il tuo burattino trascinato dai suoi animaleschi bisogni conosce meglio il gioco, ci sa fare e non impiega molto a privarmi della posta in palio; se ne va poco soddisfatto, mentre io continuo a scorrere assieme ai rigagnoli verso la più vicina pozzanghera, le gocce cadono irrefrenabili e senza alcuna pietà, l’aria che d’improvviso si riempie di un suono assordante e di una intermittenza blu e arancio, prima che tutto diventi un piccolo, inutile, insignificante dettaglio.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto (Wilde)
I dream popcorn (M/a) VERA DONNA (ABSL)
Petulante tecnofila (EM)
NON SPEDITEMI NULLA SENZA AVVISARE!
Meglio mail che mp. Grazie.
C’era un gran caldo umido quel mattino d'inizio agosto senza vento, con quell’afa che porta la gente al limite dell’asfissia. Ero in una stazione ferroviaria ad attendere un treno in ritardo. Oramai passato l'orario tipico dei pendolari, erano infatti le dieci e un quarto, attorno a me c’era un continuo viavai di gente dagli abiti leggeri e multicolori, confusa, accomunata solo dall'attesa di un treno. Chi con molti bagagli, chi senza nulla al seguito. Quel mattino, il 2 agosto per la precisione, m'ero svegliato storto - lo ricordo bene - ero rientrato a casa tardissimo, avevo tardato ulteriormente ad addormentarmi, avevo dormito per non più di quattro ore... Mi attendeva una lunga giornata di frenetici spostamenti su e giù per le vie di un’altra città, non per piacere ma per lavoro. Di sicuro non mi faceva bene vedermi circondato da gente in partenza per le vacanze estive. Il treno aveva accumulato un ritardo notevole; alcuni viaggiatori – man mano che passavano i minuti - s'innervosivano sempre più: passeggiavano su e giù per il marciapiede, alcuni fumavano sbuffando ampie cortine fumogene; il tutto accanto a quel binario che si ostinava a rimanere vuoto. Mi ero posizionato in un angolo, appoggiato tra una parete ed un pilastro, intento a pensare ai fatti miei per ingannare l’attesa. Ogni manciata di secondi mi lasciavo distrarre da qualche gesto strano eseguito dalla gente o dal passaggio di qualche ragazza carina. Mi sentivo solo, riuscivo ad estraniarmi alla perfezione da un ambiente pieno di persone. Ero in una stazione ferroviaria sempre più affollata, eppure riuscivo ad essere solo! La solitudine era dentro di me, era salita su, dentro il cervello, si era espansa, fino a dominare i miei pensieri. Non che mi dispiacesse molto tale situazione (o tale evento?), ma avevo come una strana sensazione: che non fosse il momento giusto, o qualcosa di simile. Come se l’istinto volesse avvisarmi che avrei dovuto comportarmi diversamente. Chissà... forse sarebbe stato meglio se fossi rimasto nel letto, rifiutandomi categoricamente di alzarmi, astenendomi dal compiere quello sforzo di volontà costituito dal cominciare la giornata.
Erano appena le dieci e venti del mattino e già non ne potevo più! Pazienza: quando una giornata nasce storta, difficilmente la si raddrizza. Alcuni aspiranti viaggiatori, vinti dall’afa, si rifugiarono - ed io con loro - sotto la pensilina o nella sala d'attesa riservata alla seconda classe, alla ricerca di un punto riparato dal sole. Come unica soluzione al nervosismo causato dal ritardo e dalla giornata nata male, trovai la possibilità di distrarmi guardandomi attorno.
Ero circondato da altre persone in attesa, come me. A destra, sulla panca successiva, due giovani donne dai capelli biondi, certamente turiste, ammiravano l’entrata della sala d’aspetto, quasi fossero ipnotizzate da quella magica luce estiva che filtrava da fuori; a tre metri da loro c'era una coppia (fidanzati, o giovani sposi?), i due si tenevano per mano; dall'altro lato, su un’altra panca, sedevano una famigliola ed il solito turista tedesco, sempre isolato, che sembrava saper solo scattare foto. Non capivo cosa trovasse da fotografare in una grande stazione ferroviaria, ma si sa, tedeschi e giapponesi fotografano tutto. Probabilmente, dovevo apparire come l'unico che avesse qualcosa in comune con lui: tutti quelli che ci circondavano - le due giovani turiste, la famigliola, la coppia - erano in gruppo, io ero solo.
Questo non toglieva alla stazione il suo fascino intramontabile, sembrava anzi esaltarlo. Il fascino della partenza, il fascino dell’andare via, il pensiero dell’altrove, del partire verso un posto nuovo.
Fin da quando ero bambino, la stazione mi ha sempre fatto questo effetto, d’altronde il treno per me è sempre stato simbolo di libertà, di viaggio, di esplorazione, di conoscenza di nuovi mondi. E’ qui che è nascosto il fascino della stazione: è il punto d’accesso, la rampa di lancio, la porta magica verso quel mondo fatato e lontano che immaginiamo ogni volta che vediamo un treno in transito, verso il sogno del viaggio perenne, verso nuove scoperte, verso l’ignoto.
Tutte queste sensazioni erano acuite dal fatto che era il 2 agosto: piena estate, tempo di partenza per vacanze, per viaggi memorabili, degni di essere ricordati, per notti passate in treno o in altre stazioni andando verso mete lontane, mentre se ne sognano altre ancora più lontane.
Il 2 agosto nella stazione ferroviaria c’è di tutto: gente ogni estrazione sociale, di ogni cultura, nazionalità e provenienza.
Per tutti questi motivi, forse un po’ infantili e legati comunque alla fantasia, ho sempre pensato che la stazione ferroviaria è vita. Vita pulsante, vita in movimento.
Proprio perché è vita, il gioco più bello che si può fare in una stazione è il cercare di indovinare dove sono diretti i viaggiatori che ci circondano. La cosa bella è che, anche se di solito mi diverto a giocare in coppia, si può anche giocare da soli.
Mi misi a giocare, lasciando galoppare la mia immaginazione: le due turiste bionde erano dirette a Rimini per le vacanze al mare, la famigliola - padre madre ed un bambino di circa sei anni - poteva stare andando dai parenti in un posto del sud Italia; per la coppia avevo pensato ad un luogo più romantico, come ad esempio Firenze, il tedesco era l’unico che mi metteva in difficoltà: ero incerto tra Roma e Venezia.
Finalmente dall’altoparlante annunciarono l’arrivo del treno Ancona-Chiasso, il treno che attendevo. Mi guardai ancora attorno, esitai, quasi non volessi andare via: il sogno di perenne partenza che si accarezza nella stazione era riuscito a raddrizzarmi la giornata! Ammirai con una nuova gioia interiore la folla allegra, multicolore, vacanziera, poi vidi il treno fermarsi al binario e mi avviai verso l’uscita della sala d’aspetto. Un nuovo viaggio che iniziava. Una nuova promessa di libertà, di esplorazione, di conoscenza del mondo.
Guardai distrattamente l’orologio: le dieci e venticinque.
Fu un attimo, poi quel mondo di promesse svanì violentemente.
L’effetto devastante dell’esplosione fece cadere tutte le persone presenti, vidi per un attimo alcune sagome umane scagliate in aria, poi il soffitto crollò come se fosse fatto di sabbia. Sembrò che venisse giù tutta la stazione. Sembrò che venisse giù anche il cielo.
Ebbi il tempo di vedere il cadavere del tedesco cadere su altri corpi senza vita; le immagini delle maschere insanguinate delle due turiste bionde e della coppietta mi attraversarono le pupille, mentre qualcosa di pesante mi spingeva alle spalle verso il pavimento, poi fu il buio.
Un buio istantaneo.
Senza neanche sapere cosa fosse successo.
---
Un giornale qualunque. Edizione Straordinaria del 2 agosto 1980.
Bologna. L’esplosione di un ordigno all’interno della stazione centrale ha causato la morte, finora accertata, di 85 persone ed oltre 100 feriti, bilancio che sembra destinato ad aggravarsi nelle prossime ore.
Lo scoppio, violentissimo, è avvenuto alle 10.25 nella sala d’aspetto di seconda classe, ed ha provocato il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe, dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar, e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione ha investito anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Al momento della stampa di questa edizione, i vigili del fuoco sono ancora al lavoro per liberare alcuni viaggiatori intrappolati tra le macerie.
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Non sono certo di essere nel posto giusto, essendo la prima volta che partecipo al FORUM (ammesso che questo sia il forum).
Se qualcuno riceverà questo messaggio, sappia che la mia ferma intenzione è quella di votare per MISILMERI.
Zaziki
ecco... sento il dovere di dire quantomeno che NON è il tuo racconto (qualcuno potrebbe pensar male... ), e visto che è il tuo primo messaggio in assoluto non dico nulla gli altri commenti li rimanderei al 31 (chiusura del sondaggio).
P.S. se blocco il 3d blocco anche il sondaggio quindi non posso, fate i bravi su
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NON dico per chi ho votato per ora, ma dico che scegliere è stato difficilissimo, tutti interessanti e qualcuno davvero davvero bello.
Soprattutto mi è piaciuta la varietà di stili e le diverse applicazioni dell'idea dell'altrove.
Quando si fa il prossimo?
Che le tartarughe siano grandi ammiratrici della velocità è cosa del tutto naturale.
Le speranze lo sanno, e se ne infischiano.
I famas lo sanno, e ne ridono.
I cronopios lo sanno e ogni volta che incontrano una tartaruga tirano fuori i gessetti colorati e sulla curva lavagna della tartaruga disegnano una rondine.
(J. Cortàzar, "Storie di cronopios e famas")
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Umf! Banale e prevedibile!
Che noia che noia che barba che barba!
Che le tartarughe siano grandi ammiratrici della velocità è cosa del tutto naturale.
Le speranze lo sanno, e se ne infischiano.
I famas lo sanno, e ne ridono.
I cronopios lo sanno e ogni volta che incontrano una tartaruga tirano fuori i gessetti colorati e sulla curva lavagna della tartaruga disegnano una rondine.
(J. Cortàzar, "Storie di cronopios e famas")