Una lingua per sopravvivere: l’”ebraico dei posti di blocco”
C'è chi impara una lingua per far carriera universitaria e chi, come i palestinesi, per sopravvivere, soprattutto nei posti di blocco israeliani. L'articolo, qui tradotto, cita numerose espressioni tratte dall' "ebraico dei posti di blocco" e un caso molto singolare di come un nome possa essere pregno di significato...
In Terra santa esiste un’influenza reciproca tra le due lingue semitiche sorelle, l’arabo e l’ebraico. Sono le due lingue ufficiali dello Stato d’Israele, almeno sulla carta per quanto riguarda la lingua della dad [l’arabo, n.d.t.].
Ed esistono, come è noto, numerose motivazioni che spingono ad imparare una data lingua delle quattromila lingue parlate oggigiorno dall’essere umano. Vi sono cause economiche, sociali, scientifiche, politiche e personali. Non è raro sentire di qualcuno che studia una data lingua senza aspirare ad acquisire qualsiasi capacità in due campi fondamentali come il parlato e lo scritto, per diventare soltanto un accademico che viene invitato a parlare nei mass media del suo Paese della cultura o della storia espressa in quella lingua, della religione dei popoli che la parlano, dei loro usi e costumi, senza esser capace di proferire parola con un intellettuale di quelle nazioni, né con una semplice persona con la loro lingua, né acquistare bibliografia per la sua specializzazione utilizzando la lingua della quale dice di essere specialista. Ciò che c’è di comico in questa tragedia è che la gente, normalmente non sa che simili accademici, arroganti fino al midollo e tronfi fino ad esplodere, non osano dire nemmeno una frase di senso compiuto nella lingua che studiano figurarsi tenere una lezione, anche solo di pochi minuti, in quella lingua. Vivono nell’oscurantismo totale e bisognerebbe, di fronte ad un fenomeno così negativo, lavorare energicamente per far emergere la verità.
Tuttavia, c’è chi impara una lingua per sopravvivere, per guadagnarsi nient’altro che il pane quotidiano, come dichiarato da un giovane di Betlemme intervistato dalla giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, ‘Amira Hass, nell’autunno del 2001. Oggi una delle parole più pronunciate negli incontri quotidiani tra i soldati israeliani e i civili palestinesi è mahsum, cioè posto di blocco [hajiz, in arabo, n.d.t.]. E’ interessante notare che questo hepax legomenon, come viene definito scientificamente, è apparso soltanto nell’Antico Testamento nel salmo 39 (versetto 2) che è stato completato nel terzo secolo a.C.: «Ho detto: “Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua; porrò un freno alla mia bocca mentre l'empio mi sta dinanzi”». Nell’ebraico biblico la parola mahsum significava “freno” o “museruola”, quell’oggetto che viene messo sul muso dei cuccioli di animali come il cane, il toro, il caprone o il cavallo perché non mangi o succhi o morda […] Nell’ebraico moderno la parola mahsum significa, oltre a museruola, posto di blocco, ostacolo, barriera, blocco di pietra, barricata. Tuttavia il senso più noto e più usato nelle file dei palestinesi nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è posto di blocco, check-point.
Ah, se sapeste cos’è un
posto di blocco. Il posto di blocco è un posto di controllo nel quale ci sono alcuni soldati israeliani armati, una jeep militare e apparecchi radio. I soldati fermano le auto dei palestinesi e i pedoni per perquisirli, controllarli e fare indagini. L’operazione non è priva di umiliazioni e mortificazioni come apparirà chiaro dagli esemplari linguistici che adesso andrò elencando e che sono stati registrati dalla giornalista ‘Amira Hass. Ecco alcune delle espressioni usate da quei giovani soldati ai check-point, diffusi in Terra santa come le colonie ebraiche:
- mi siedo sulla tua nuca [per gli arabi la nuca è una parte molto sensibile del corpo umano. Una frase del genere equivale ad un insulto molto pesante, n.d.t.];
- moscerino;
- sei piccolo così (forse indicando il mignolo della mano);
- vattene, sparisci da qui;
- non intrometterti;
- insetto;
- sozzo;
- alza le mani, fermati lì, spegni il motore, indietro;
- bugiardo, non ti credo, di’ la verità;
- idiota;
- ti spezzo le gambe, ti buco le ruote della macchina;
- deciditi;
- ti sparo una pallottola che vale 2000 dollari che ti arrivano dall’Iraq (in riferimento alle donazioni che Saddam Hussein elargiva alle famiglie delle vittime palestinesi);
- ti sparo una pallottola che vale una notizia flash (in riferimento al fatto che la tv palestinese riferisce sempre quando l’esercito israeliano spara e ferisce qualcuno).
L’ebraico dei posti di blocco è aggressivo, orribile, ignobile perché è sempre ricco di insulti e parolacce.
Una delle occasioni più belle della vita coniugale è la scelta del nome dei figli. I genitori e i parenti si consultano per scegliere un nome che sia in accordo con la natura e l’aspetto del neonato. A volte, come tutti sanno, non c’è bisogno di cercare perché il primogenito prende il nome del nonno. Oppure, i nati la notte di Natale (‘Id al-Milad), presso gli arabi cristiani, vengono chiamati Milad (Natale) oppure i nati il giorno della festa dell’Epifania (‘Id al-Ghitas), vengono chiamati Ghattas, per i maschi, Ghattasa, per le femmine. Ultimamente è successo che una donna palestinese di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, doveva partorire. Un’auto la stava portando di corsa verso l’ospedale Nasir, in città, perché potesse partorire lì. Per la strada, come al solito, c’era un posto di blocco dotato di torre di controllo. L’auto è stata fermata per controlli, ispezioni, perquisizioni ecc. I dolori del travaglio si sono fatti sempre più intensi e frequenti cosicché la donna ha partorito lì, nell’auto, nel mahsum, nel posto di blocco. La neo madre non ha esitato nemmeno un istante nello scegliere il nome del suo tenero pargoletto. Lo ha chiamato Hajiz (check-point, posto di blocco) perché si ricordi, una volta grande, la sofferenza, la tortura, l’umiliazione che ha patito la sua famiglia nei posti di blocco, i masahim. In arabo, posto di blocco (hajiz) deriva da una radice che indica l’impedimento, la separazione, la lama della spada e l’ingiustizia. Si dice che lo Hijaz (Bilad al-Hijaz) sia stato chiamato così perché separa la regione di Tahama dal Najd.
Le persone attente a ciò che succede oggi nel mondo hanno tutto il diritto di credere che lo hajiz (posto di blocco) sia stato chiamato così per indicare il confine tra bene e male, tra pace e guerra, tra questo e quello, tra noi e voi.
E’ impossibile cancellare la memoria, non importa se aumenteranno i mahasim, se continuerà ad innalzarsi e a ispessirsi il Muro divisorio.
tratto da al-Quds al-'Arabi, 15.5.2006, tradotto da Marco Hamam
http://www.aljazira.it/index.php?option ... 2&Itemid=1