Ciao
vi posto un raccontino che ho registrato col numero 475-851673
Appartamento in centro…..
Se Marion avesse avuto un presentimento di quel che sarebbe accaduto in quel giorno caldo d’estate, non è dato saperlo . Ma non ha mai dato segno di essere particolarmente percettiva né di saper cogliere le emozioni, come capita a talune persone, a pelle. Non narrerà a nessuno l’accaduto, tanto più che non ci sono fatti esteriori eclatanti da narrare. E teme di esporsi al ridicolo. Ciò che cercassero gli altri protagonisti, cosa pensassero, cosa avessero trovato, non è dato sapere ed essi lo espressero solo con la musica l’uomo, con lo sguardo la donna e i bambini, con le parole impaurite e stanche la padrona di casa. E se la musica e lo sguardo parlano, occorrono anche un orecchio attento e un occhio vigile per cogliere. E spesso le parole hanno un senso recondito difficile da percepire. E anche il silenzio ha una sua voce. Ma tale acutezza e sensibilità sono doni che mancano a Marion.
Tutta la vicenda ha avuto inizio dal suo desiderio di comprarsi un appartamento in centro. Ha letto un annuncio su un quotidiano, che parla di un tre locali, libero, dietro l’università.
Prima dell’appuntamento, si ferma per un aperitivo vicino al Duomo. E’ un pomeriggio d’estate caldo e afoso, immobile in attesa di un temporale incombente. Sotto la Galleria perfino l’uomo della lotteria sembra aver poco da gridare. Frotte di turisti sciamano ordinati. Marion viene da Piazza San Babila e i suoi sono pensieri tipicamente estivi, le vacanze, le ferie. Lavora in un ufficio del centro, appollaiato all’ultimo piano di un palazzo opulento, gente sempre ben vestita, elegante e raffinata, ma pronta a sbranarti al primo errore. E lei ha imparato a non sbagliare mai. Perfetta, efficiente, ordinata, guarda dalla sua finestra il mondo sottostante con malcelato orgoglio , vede passare le altre, trafelate, in disordine e così inevitabilmente sempre sciatte ai suoi occhi. Lei stessa non si può dire una bellezza, ma ha saputo costruire il proprio corpo con una perfezione maniacale, serate in palestra, una dieta mai trasgredita, piscina, lampade. Tutto quel che occorre. Ogni momento è occasione per mettere se stessa al centro dell’attenzione di qualcun altro. E non potresti non notarla, con quelle gambe lunghe, la minigonna cortissima, le scarpe alte e i capelli curatissimi nei loro colori innaturali.
E’ abbastanza presto per l’ora dell’appuntamento, ma si incammina. La casa da vedere è nella zona Università Cattolica, in una via alle spalle dell’Ateneo.
La mattina ha parlato con una signora molto anziana che le chiede di recarsi a un certo indirizzo. Nulla di straordinario. Marion ha già visto diverse case in quel periodo.
La madre ha dato alla figlia un nome molto banale, quello della nonna materna che lei non ha mai visto e della quale sa solo che se n’è andata dalla sua casa, lassù nel Friuli, per cercare un lavoro in una grande città, che il nonno, arroccato nel suo piccolo paese, non ha saputo seguirla e che nella grande città è morta giovane. Marion è solo un diminutivo, uno scherzo del padre, ma che le dà quel tocco di esotico che non guasta.
I pensieri si dissolvono nell’afa milanese mentre lei si incammina a piedi. È in anticipo. Piazza Cordusio, il banchetto dei fiori, via Meravigli coi suoi palazzi eleganti, la sede della Camera di Commercio, i bei negozi. Ma lei sta già pensando all’appuntamento. Sbuca in Corso Magenta, poi una traversa, una viuzza stretta. E’ arrivata. Suona il citofono ed è allora che ode la musica. Una musica dolce, dietro le sue spalle. Non si volta. Non saprebbe dire il perché, ma non si volta. La via è stretta. Esita. Ha paura. Non c’è nessuno per strada. Solo la musica alle sue spalle. Se si voltasse vedrebbe un uomo bello, con la barba incolta, le mani affascinanti, come devono essere affascinanti le mani di un musicista. Ma soprattutto un uomo triste, infinitamente triste. E quell’uomo suona, suona per lei. Lo sente ma non osa guardarlo. Finalmente una voce risponde, anziana e stanca. Marion sale delle scale strette e buie, senza ascensore. Una porta, lassù al quinto piano si apre di tre quarti. Una donna grigia non solo nei capelli, ma nel volto e negli occhi, apre la porta. L’abito rosa è una macchia di colore in quell’ambiente. Marion si ritrova nella penombra. I pesanti tendaggi sono tirati. “Vivo sola” aveva detto la donna al telefono ” e sto per andarmene”. Forse per il condizionamento di queste parole, Marion non si accorge subito di altre tre figure nel buio. Mentre parla, le pare ancora una volta di udire la musica salire. Forse l’uomo è dietro la porta, pensa.
Nel buio intravvede tutta la famiglia. C’è un divano color cremisi sullo sfondo, sotto la finestra oscurata dai tendaggi, con una coperta a fiori vivaci a ricoprirlo. Sul sofà sono sedute tre figure, una donna giovane con due bambini stretti ai lati, un maschietto e una femminuccia. Sono immersi nell’oscurità e Marion vede i volti, spauriti, attenti, assorti, non verso di lei, ma verso la vecchia quelli dei bambini, verso la porta, da dove proviene la musica, quello della donna, ad ascoltare quel suono o forse ad attendere qualcuno che arrivi. Marion fa per salutare, ma qualcosa la trattiene. Ed è il fatto che la donna anziana non guarda mai in direzione del gruppo sul sofà, ma fissa nella sua direzione. Forse non vanno d’accordo pensa Marion. Il solito, classico, banale scontro tra suocere e nuore portato alle sue estremità? Marion si accorge dell’abbigliamento incongruo, antiquato delle tre figure. La bimba con un grembiulino, stranamente macchiato. Forse viene dall’asilo, ma perché la mamma non l’ha cambiata? Di fronte ad un’estranea, con quel grembiulino sporco, le dà un senso di fastidio. Il bambino ha dei pantaloni lunghi e una camicia chiusa, ma non ha caldo? Eppure non sembra accorgersene. Marion è sempre più a disagio. La donna la invita a sedersi, con cortesia, su una vecchia sedia ad un tavolo rotondo. La scena ha un che di grottesco. Lei così bella e affascinante, i bambini con lo sguardo terreo, la madre che scruta la porta, la musica che si fa più vicina e assume un tono più basso. Se Marion fosse più avveduta si renderebbe conto che questo è un Requiem, suonato con la tristezza di un violino. E la donna anziana, col suo vestito rosa, che sembra non accorgersi di nulla. Sono sedute al tavolo. Prendono il the e parlano d’affari. Si stringe le mani, in un gesto di nervosismo. “Dobbiamo concludere subito. Sto per andarmene”. Dice questo ravviandosi i capelli che sfuggono a ciocche dalle forcine. Marion si chiede se la donna sul sofà possa dire la sua in quel contratto, o se sia solo un ospite, ma questa resta muta ed indifferente. “Sto per andarmene”. “Ci devo pensare”. “Domani” promette Marion. Domani. Forse. Speriamo. è la risposta della donna.
Dà un ultimo sguardo all’arredamento, forse per distogliere i pensieri da quell’atmosfera cupa. Di fronte al divano, oltre il tavolo rotondo dove hanno preso il the in tazze di porcellana, c’è una credenza quanto mai antiquata, di quelle coi vetri istoriati come ne ha vista una nella casa del nonno da piccola, lassù nel Friuli. Anzi a guardarla è identica. Fissa lo sguardo nel buio e si accorge di un qualcosa che non ha notato. Sulle sedie, sul letto, che si intravvede nella stanza attigua, sono ovunque vestitini da bimbo, ricamati con un’arte preziosa, da quel che lei può capire. Prova irritazione, per i due bambini combinati così malamente e quei bei vestitini sparsi sulle sedie. Fuori si ode il rumoreggiare del temporale, sovrastato da quella musica, ormai un grido angosciato. Anche i bambini mutano i loro visi, la donna giovane ha lo sguardo sempre più assorto, la bocca aperta in un grido muto, l’anziana si fa sempre più distante. La discussione è finita. È accompagnata alla porta. Saluta e si allontana verso il temporale. Fuori non c’è nessuno e la musica è cessata improvvisamente. E allontanandosi da quella casa verso i tuoni, i lampi, la pioggia, per la prima volta prova sollievo come se tutto sia preferibile a quell’atmosfera. Poi col temporale si dissolve anche l’angoscia e tutto torna sul filo di una normalità apparente. Non ha più osato telefonare a quella donna, è come se recandosi in quella casa avesse violato un che di recondito, come se l’avessero messa a parte di un segreto che lei non riesce a cogliere nella sua interezza. L’ha riposto nella sua memoria, pronto a riemergere alla prima occasione. E da allora cerca quel suono senza ritrovarlo mai…..
È passata una settimana, il senso di disagio la sta abbandonando, presa com’è dal lavoro e dal ritmo frenetico della città, quando improvvisamente lo nota. E’ un articolo di giornale, in cronaca nera ….. L’avevano trovata morta, da sola, in un appartamento in centro, la testa appoggiata su un tavolo, le mani stese innanzi a sé, con un vestito rosa, i capelli sparsi sulle spalle. Ma quella morte diventava occasione per ben altra rievocazione.
Un mattino lontando di dicembre Milano si era svegliata sonnacchiosa e indolente, le motorette viaggiavano per le strade, insieme alle biciclette, mentre il traffico era ancora vivibile. Le signore prendevano il caffè negli eleganti caffè del centro. Era un inverno, un inverno freddo, ricordava il cronista. Nei salotti bene si parlava ancora dell’ultima inaugurazione dell’anno musicale alla Scala. Ma era stato un articolo di giornale a risvegliare quella Milano d’altri tempi e a riempirla di angoscia e di tristezza. Tre cadaveri erano stati trovati in una casa accanto alla Stazione. Una mamma e due bambini. Avvelenati. La colpevole era già stata assicurata alla giustizia. Non si era nemmeno curata di nascondere l’acquisto del veleno. L’aveva preso nella farmacia sotto casa. Doveva uccidere dei topi, si era giustificata. Del resto a lei non importava nulla. Non poteva ormai più avere quell’uomo, nessuno lo doveva avere. L’uomo era un musicista, un violinista, non di quelli famosi che avevano suonato alla Prima della Scala, ma un distinto insegnante di musica al conservatorio milanese. Un uomo colto che amava passare il suo tempo alla casa di riposo per artisti ad ascoltarne i ricordi o a sentire ancora l’eco di suoni lontani. Lei lavorava in quella casa. Era una segretaria. Bella e procace, con un fascino selvaggio. E amò quell’uomo fino alla follia. Fino a riempire di veleno per topi dei dolci e a spedirli a lei, la rivale odiata e a quei due bambini, ostacolo fra lei e l’amore. Erano venuti dall’asilo in quel dicembre di freddo intenso, la bambina non aveva nemmeno tolto il grembiulino sporco, si era gettata su quei dolci che avevano trovato in portineria. E avevano riso mangiandoli, addentandoli, offrendoseli a vicenda con voracità. Ed erano morti insieme, per mano, senza scampo. Il padre se n’era andato scomparendo per sempre nel nulla.
Lei arrivava al processo sempre vestita di rosa, con le forcine tra i capelli. Ogni giorno sui giornali comparivano articoli coi resoconti delle udienze. Le voci correvano in quella Milano uscita dalla guerra, non ancora europea città frenetica, ma dove sopravviveva il gusto del pettegolezzo. Del delitto e del processo parlavano le portinaie fuori dai palazzi, le cameriere nei caffè, le maschere nei cinema. Le signore uscivano di casa impellicciate per andare a seguire le udienze col fiato sospeso, conquistate da quella sorta di fumetto rosa d’altri tempi. Poche file dietro di loro, le loro domestiche ugualmente curiose e avide di cogliere ogni particolare.
Non ci fu bisogno di dividersi in innocentisti e colpevolisti. Il delitto passionale si offriva alla curiosità, e forse in cuor suo qualcuno avrebbe potuto anche capire, ma la morte di due bambini pesava sulla coscienza come un macigno. Era impossibile dimenticare, Margherita col suo vestitino sporco e il piccolo buffo Giacomo, un ometto…. Come disse il pubblico ministero al processo. Non ci furono discussioni. Le porte del carcere si chiusero a vita per quell’assassina spietata e senza cuore.
In carcere diceva l’articolista, l’avvelenatrice aveva imparato a ricamare vestiti che offriva ai bambini poveri……. Un giorno, dopo quattro decenni, era uscita dal carcere, ma aveva continuato a lavorare per i bambini poveri, sola e dimenticata da tutti. E, soggiungeva l’articolista, nemmeno al suo paese, lassù nel Friuli, qualcuno la ricordava ancora….
Non sa né come né perché, ma Marion sta correndo per le vie della città, a cercare conforto. A rifugiarsi come una liberazione in una chiesa. Lei che in chiesa non è andata mai si ritrova a pregare, a modo suo, per delle anime che non sa di chi siano ……
Racconto - Appartamento in centro
Moderatori: liberliber, -gioRgio-, vanya