Dal 12 dicembre 1969 – bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana - al 17 maggio 1973 – bomba alla Questura di Milano: un periodo storico intenso, doloroso, ancora misterioso (come purtroppo altri ce ne sono) nella storia recente di questo nostro povero Bel Paese, raccontato attraverso gli occhi e il cuore di diversi personaggi, più o meno rilevanti sul piano della Storia ma comunque sempre importanti per la loro storia.
Io che molto difficilmente sono attratta dai libri incentrati su complotti, eversione, terrorismo (a maggior ragione poi quando non sono del tutto fiction, come in questo caso) mai avrei pensato di poter leggere questo libro, se non fosse che è uscito dalla penna di Valerio Aiolli, autore scoperto recentemente grazie a “Lo stesso vento”, che mi ha colpita positivamente come da tempo non succedeva.
Quindi mi ci sono immersa con attenzione e passione, e almeno inizialmente le mie aspettative non sono state deluse; ma l’interesse è andato progressivamente scemando, ed ho terminato la lettura solo per verificare se un qualche guizzo ne avrebbe risollevato le sorti.
Ciò che all’inizio costituiva il punto di forza, la nota originale del libro, ha finito invece per risolversi, ai miei occhi, in un vero e proprio limite: l’architettura complessa, fatta di capitoli alternati incentrati ora su un ragazzino fiorentino (che presumibilmente incarna i ricordi dell’autore stesso), ora su un’esponente politico della Democrazia cristiana di quegli anni, ora su vari elementi del terrorismo, ha arricchito il racconto fino ad un punto di rottura, quando ho iniziato a percepire la coralità come frammentarietà, quando l’impegno per ricollocare le varie tessere del mosaico ha cessato di essere guidato dall’autore per essere lasciato alla mercè del lettore. Segnali di ciò erano iniziati quando la discrasia temporale, anche se di pochi anni, ha iniziato a contrassegnare con maggior scarto il salto da un capitolo/personaggio all’altro, quando all’interno di alcuni capitoli il piano temporale si è vieppiù increspato con il ricorso al flash back, quando ho realizzato, in definitiva, che stavo continuando a leggere solo perché mi interessava seguire la storia di formazione del ragazzino (a cui avrei desiderato fosse dato maggiore spazio), mentre tutto il resto si confondeva in moti dell’animo tra i più diversi, come diversi ne erano i protagonisti, ma senza appassionarmi.
Riconosco all’autore la bravura nell’aver saputo raccontare ogni storia con un registro narrativo, linguistico e umorale diverso e appropriato, nell’aver saputo usare (almeno fino a un certo punto) la terza, la prima e perfino la seconda persona in modi che hanno contribuito a delineare i confini fra i diversi elementi del romanzo, nell’aver portato avanti contemporaneamente trame e sottotrame distinte e confluenti, nell’aver attribuito ai personaggi di spicco soprannomi tali da invitare il lettore ad un gioco di decrittazione.
Ma nel complesso ho apprezzato solo una parte del libro. La storia che più ha toccato le mie corde è stata quella del ragazzino che a partire dai primi battibecchi tra la sorella e il padre sui temi politici, vede disgregare l’intera famiglia con la separazione dei genitori, incapaci di reagire e rimanere uniti dopo la fuga della ragazza, scappata per andare a fare quella che credeva dovesse essere la sua parte negli sviluppi di quegli anni, lasciando dietro di sé la scritta “voglio essere orfana”. Un ragazzino senza nome, particolare che ne fa ai miei occhi un simbolo generale di quanto sia comune, a quell’età, guardare ai fratelli più grandi con occhi di ammirazione, rimanere legati a loro anche a distanza, privilegiare il contatto con loro rispetto a quello con i genitori. Tanto più, come nel caso di questo romanzo, quando tutte queste dinamiche emotive si inscrivono in un momento storico in cui prendere coscienza della realtà circostante non è solo uno dei passi che portano alla crescita, ma è tanto più doloroso quanto più convulso e drammatico è appunto il contesto storico di cui si entra a far parte.
E, forse non a caso, il passaggio che, su questo tema, più mi ha toccata non ha a che vedere con le stragi e le bombe, ma con il prendere coscienza di sé come individuo immerso nella realtà circostante in relazione a fatti meno (ma nemmeno poi tanto) drammatici, quali l’alluvione di Firenze del 1966:
“ per me i giorni dell’alluvione erano stati una bellezza fatta di orari saltati, di schizzi con gli amici nelle pozze di fango, e dell’idea – che mi si affacciò alla mente allora per la prima volta – che la realtà così com’era non era data una volta per tutte, ma che qualcuno, o qualcosa, poteva modificarla, sovvertirla, rivoltarla come un calzino da un momento all’altro. Cosa che se da un lato mi parve spaventosa, dall’altro mi risultò liberatoria. Niente era dato una volta per tutte. Non il bene, ma neanche il male.”
"Nero ananas" - Valerio Aiolli
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