Adesso sì che è passato
un anno. Un anno da
Nassiryah. Non ho un
ricordo particolare
di quel giorno: solo
le agenzie che di ora
in ora, implacabili, facevano
crescere il numero delle vittime.
Ho i ricordi di qualche settimana prima,
di quelle amicizie nate nelle quattro stanzette
dell’Ufficio di Pubblica informazione
della Brigata Sassari, dove il calore umano
confortava le serate fredde, desertiche. Ricordo
quei graduati i cui accenti e i cui atteggiamenti
avevano per intero l’asprezza
dolce dell’isola, quella Sardegna che riempie
le fila della Brigata Sassari: Silvio Olla,
Alessandro Mereu. Conoscevo anche alcuni
tra i carabinieri, ma non riuscivo a collegare
i volti e i ricordi ai nomi di quell’elenco
che si aggiornava, nella notte. Ricordo i
giorni successivi, quando andai alle esequie
alla Basilica di San Paolo, e non ero lì per
lavoro. Ricordo i sentimenti del paese, quell’ondata
emotiva che mi sembrava perfino
troppo concorde, e la retorica difficilmente
evitabile di quei giorni. Tanto che mi capitò
di pensare che era comodo, piangere su
quelle vite perdute, dopo averle trascurate
quando non facevano pietà, quando obbedivano
agli ordini nella Genova del G8, o nella
Nassiryah incruenta di cui gli uni sottolineavano
lo scenario di una missione di pace,
gli altri sospettavano lo sfondo di un’occupazione.
Uomini di pace, così li chiamavano
i manifesti. E a me sembrava che questo
fossero, certo: li avevo visti all’opera, sapevo
cosa avevano in testa, conoscevo i progetti
di aiuto, vedevo come si comportavano
con la gente. Sapevo anche che era gente
che aveva della pace l’idea sobria e realistica
che ha chi conosce le paci difficili, a Mogadiscio
o a Sarajevo. E sapevo che quella
specie di nastro funebre, quell’etichetta –
“uomini di pace” – aveva qualcosa di posticcio,
una specie di scartiloffio che ignorava
altri aspetti della loro umanità, della loro
professione, che comprende carezze ai bambini,
ma anche dito sul grilletto, e i due gesti
sono legati, l’uno consente e detta l’altro, per
la stessa, e opposta schizofrenia che fa dell’altro
pacifismo, quello ideologico e politico,
un fenomeno in genere piuttosto aggressivo,
irto di odio e disprezzo. Si scriveva “uomini
di pace” per “venderli” meglio, meglio
che se si fosse scritto “soldati” o “italiani in
divisa” o qualunque altra categoria meno
appetita sul bancone del disarmo ideologico.
Ma insomma, questo passa il convento,
questo è il nostro paese, un paese così così,
ma è il nostro, tu passeggi e guardi i manifesti,
e vedi che liberando le due Simone hanno
liberato la pace. Poi se i due francesi restano
al palo, o muoiono dei camionisti turchi,
non è che la pace sia prigioniera, o venga
decapitata, niente.
Le moschee armate di Fallujah
Tutto questo mi è tornato in mente intervistando
il caporal maggiore Federico Boi,
che mi raccontava gli attimi successivi all’esplosione,
e quando gli ho chiesto chi l’avesse
soccorso – mi avevano colpito, in quelle
scene, la solidarietà degli iracheni – mi disse
che i soccorritori non gli si erano avvicinati
subito, perché lui stringeva l’arma ed
era pronto a sparare, nella confusione e nell’incertezza
di quel momento. Erano uomini
di pace in un posto dove si combatte, per affermarla.
C’è una battaglia in corso, un anno
dopo. La stessa battaglia ? Se Nassiryah fu
colpita, allora, dal terrorismo per spezzare
la confidenza, per incrinare la pace sociale
della provincia di Dhi Qar, che ruolo ebbe
Fallujah in quella bomba contro Animal
House? L’inchiesta è all’irachena, con qualche
traccia che conduce a una Facoltà di
teologia a Baghdad, e qualche orma che
conduce, lungo il sentiero Hebzbollah, a
Beirut. Abbastanza poco, ma abbastanza per
intuire un terreno mobile di contatto tra terrorismo
arabo, terrorismo sunnita e terrorismo
di apprendisti sciiti (che non risulteranno
poi specializzarsi né in autobomba né
in sequestri). Quel sentiero passa, come quasi
tutto in Iraq, attraverso Fallujah. A Fallujah
ci sono i covi di sequestratori, e macellerie
di decapitazioni. A Fallujah la mediazione
è stata tentata, come ricorderete, la
scorsa primavera. Ci fu persino l’istituzione
di un Corpo di Difesa di Fallujah, con un generale
ex Guardia Repubblicana al comando,
e cerimonie con passaggio di consegne e
consegna delle chiavi e taglio di nastri. Fallujah
è restata un luogo in cui, per fare solo
un banale esempio, le bande fondamentaliste
dettano legge portando alla gogna tre
venditori di alcool, e le moschee sono depositi
di armi. Era tollerabile questo, per chi
ha a cuore uno straccio di democrazia irachena?
Era pensabile un’altra mediazione
che non fosse la resa delle armi, il ritorno
della legalità senza condizioni? Certo, bombardare
è un lavoro sporco, e così rispondere
al fuoco di chi ti spara dai minareti, ma
qualcuno doveva farlo, e se non lo fanno diecimila
americani e duemila iracheni, inviati
da un governo riconosciuto dalle Nazioni
Unite, chi lo fa? Fortunatamente non è toccato
ai nostri uomini di pace, che piangiamo
quando sono vittime, e sospettiamo quando
non accettano di esserlo.
Toni Capuozzo
